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Saggio

“Relative priority rule” e diritti dei soci nel concordato preventivo in continuità*

Michele Perrino, Ordinario di diritto commerciale nell'Università di Palermo

12 Dicembre 2022

*Destinato agli scritti in onore di Rosalba Alessi.
*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
La codificazione di nuove regole di possibile distribuzione del valore ritraibile dall’impresa in crisi oggetto di ristrutturazione fra i creditori – e non solo fra questi, venendo ora in gioco anche una nuova disciplina delle possibili attribuzioni ai soci – è una delle più rilevanti innovazioni introdotte con l’entrata in vigore del Codice della crisi di impresa e di insolvenza, come novellato dal D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, in attuazione della Direttiva (UE) 2019/1023. Il lavoro ripercorre la genesi e lo sviluppo di tali regole nell’orizzonte statunitense e poi in quello europeo, per poi tornare alla recente disciplina italiana in esame, con particolare attenzione al trattamento dei soci.
Riproduzione riservata
1 . Premessa. L’ingresso della “regola di priorità relativa” nel CCII
La codificazione di nuove regole di possibile distribuzione del valore ritraibile dall’impresa in crisi oggetto di ristrutturazione [1] (il reorganization value, che è essenzialmente un going concern value, un plusvalore di continuità) fra i creditori – e non solo fra questi, venendo qui in gioco anche una nuova disciplina delle possibili attribuzioni ai soci nel concordato preventivo, di importanza centrale per le ragioni della riforma in materia, come si vedrà – rispetto agli schemi consueti della par condicio nella severa trama gerarchica delle cause legittime di prelazione, è una delle innovazioni più rilevanti della recente disciplina, introdotta dal D.Lgs. n. 14/2019 con l’entrata in vigore del Codice della crisi di impresa e di insolvenza, come profondamente riconfigurato dal D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, in attuazione della Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 (c.d. Direttiva Insolvency).
Non si tratta soltanto di un’ampliata libertà di deroga – nei termini di una mera possibile disapplicazione, di una previsione solo negativa cioè – all’art. 2741 c.c. ed alle connesse disposizioni che regolano la graduazione delle prelazioni, a fronte di quanto era già pacificamente ammesso sotto la previgente disciplina, sul presupposto ed in virtù del consenso degli interessati, nei confronti dei creditori aderenti agli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis ss. L. fall.
Una libertà di deroga (non meglio determinata nei contenuti) che oggi peraltro si allarga, per gli “accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa” alle condizioni poste dall’art. 61 CCII, rispetto ai creditori anche non aderenti – prescindendo allora dal loro consenso [2] – che non rappresentino più del venticinque per cento dei crediti riferibili ad una medesima categoria/classe di creditori, i quali per il resto siano invece aderenti all’accordo, purché questo abbia “carattere non liquidatorio” (art. 61, comma 2, lett. b, CCII) [3].
Ancora, una libertà che ulteriormente ora si afferma pure rispetto ai singoli creditori che non abbiano approvato il (nuovo strumento del) piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione di cui all’art. 64 bis CCII [4], comunque votato favorevolmente dall’unanimità delle classi, ognuna al proprio interno secondo le maggioranze previste dal comma 7; creditori i quali – di nuovo, irrilevante restando il loro individuale consenso – potranno così andare soggetti in caso di omologazione del piano alle ammissibili previsioni di distribuzione del “valore generato dal piano anche in deroga agli articoli 2740 e 2741 del codice civile e alle disposizioni che regolano la graduazione delle cause legittime di prelazione”.
Sono questi peraltro – può fin d’ora osservarsi – due ordini di previsioni, quelle testé richiamate degli artt. 61 e 64 bis CCII, nelle quali si fa dunque strada un modello, seppur non declinato anche in positivo (su ciò che possa legittimamente programmarsi, cioè, in termini di trattamento diversificato), di possibile differenziazione del soddisfacimento dei creditori rispetto al diritto comune della responsabilità patrimoniale, indipendentemente dal consenso del creditore interessato, purché in un quadro di ristrutturazione non liquidatoria (cui sembra alludere, anche nel piano soggetto ad omologazione, il riferimento al “valore generato dal piano”, un valore cioè non presente già nel patrimonio del debitore, al tempo dell’accesso allo strumento di regolazione della crisi, ma scaturente dall’attività programmata in sede di ristrutturazione nell’ambito dello strumento adottato) e con l’insuperabile valvola di salvaguardia di un soddisfacimento in misura non inferiore rispetto quello realizzabile nella liquidazione giudiziale (cfr. gli artt. 61, comma 2, lett. d, CCII, per gli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa, e 64 bis, comma 8, CCII, per il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione).
Rispetto a tali nuove, accresciute benché generiche flessibilità, la adesso riedita disciplina del concordato preventivo introduce regole di distribuzione del valore ben più pregnanti e orientative.
Anzitutto, con riferimento al concordato con liquidazione del patrimonio, l’art. 84, comma 4, CCII, prevede ora espressamente – formalizzando così peraltro un approdo interpretativo già attestatosi sotto la previgente disciplina [5] – che “le risorse esterne possono essere distribuite in deroga agli articoli 2740 e 2741 del codice civile”, purché resti rispettato il requisito ivi posto del “soddisfacimento dei creditori chirografari e dei creditori privilegiati degradati per incapienza in misura non inferiore al 20 per cento del loro ammontare complessivo”. 
Con la precisazione che vanno incluse fra quelle “esterne” (senza però, sembra, volere con ciò esaurirne la categoria) “le risorse apportate a qualunque titolo dai soci senza obbligo di restituzione o con vincolo di postergazione, di cui il piano prevede la diretta destinazione a vantaggio dei creditori concorsuali” [6].
Inoltre, e per quanto qui soprattutto interessa, lo stesso art. 84 stabilisce al comma 6 che nel concordato in continuità aziendale – il modello di concordato preventivo oggi privilegiato dal legislatore della crisi d’impresa [7], alternativo rispetto all’ipotesi liquidatoria – da un lato, in applicazione delle regole generali, “il valore di liquidazione è distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione”; salvo (è da aggiungere, dovendosi anche qui, sembra, applicare la stessa regola come sopra sancita per l’altro modello concordatario, nella misura in cui si tratti di utilità non provenienti dalla liquidazione del patrimonio del debitore) per le eventuali “risorse esterne” anzidette.
Per “il valore eccedente quello di liquidazione, dall’altro lato, il rispetto dell’ordine delle cause di prelazione è inderogabile solo per i crediti assistiti dal privilegio di cui all'articolo 2751 bis, n. 1, c.c. (art. 84, comma 7, CCII); mentre per tutti gli altri “è sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore” (art. 84, comma 6, CCII).
Quest’ultima regola, che individua il contenuto legittimo del piano in continuità aziendale, in quanto prevista nell’art. 84, comma 6, CCII, sotto il profilo delle tipologie ammissibili di piano concordatario, e che perciò sembra dover rilevare già, in sede di apertura del procedimento, quale oggetto della valutazione di ammissibilità della domanda [8], come prevista dall’art. 47, comma 1, lett. b), CCII – ma sul punto dovrà tornarsi in seguito per alcune precisazioni, atteso che in effetti un controllo vero delle regole di distribuzione ha luogo solo in caso di dissenso di una o più classi, in sede di omologazione – ricompare poi nell’art. 112, comma 2, CCII, fra le condizioni che devono congiuntamente ricorrere, “se una o più classi sono dissenzienti”, per l’omologazione del concordato in continuità aziendale nelle forme di una “ristrutturazione trasversale”: espressione questa con cui lo stesso art. 112, comma 4, CCII, definisce e riassume le condizioni poste dal predetto comma 2, richiamando una nomenclatura tratta dal testo italiano della Direttiva Insolvency, nel quale è tradotto appunto quale “ristrutturazione trasversale” il procedimento di “cross-class cram-down” (nel testo inglese della Direttiva) – di omologazione cioè malgrado il dissenso di una o più classi, e perfino della maggioranza delle classi, salvo almeno una classe favorevole di creditori incisi dal piano (affected o impaired) – di cui ai considerando n. 49, 53-55 ed all’art. 11 della medesima Direttiva, sui cui si tornerà.
In tale ipotesi, infatti, il tribunale (in base al citato art. 112, comma 2), “su richiesta del debitore o con il consenso del debitore in caso di proposte concorrenti”, dovrà fra l’altro verificare che: per un verso, “a) il valore di liquidazione è distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione”; e per altro verso che b) il valore eccedente quello di liquidazione è distribuito in modo tale che i crediti inclusi nelle classi dissenzienti ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore, fermo restando quanto previsto dall'articolo 84, comma 7”, CCII (circa l’inderogabile rispetto della graduazione delle cause legittime di lavoro per i crediti con il privilegio ex art. 2751-bis, n. 1, c.c.).
Requisiti per l’omologazione nell’ipotesi di “ristrutturazione trasversale” in discorso sono inoltre quelli per cui “c) nessun creditore riceve più dell'importo del proprio credito”; e, quanto al consenso raccolto presso i creditori, la verifica secondo cui “d) la proposta è approvata dalla maggioranza delle classi, purché almeno una sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione, oppure, in mancanza” – cioè in caso di mancata approvazione a maggioranza delle classi – , “la proposta è approvata da almeno una classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione”.
Fa così il suo ingresso nel CCII, per effetto delle modifiche apportate con l’ultimo decreto n. 83/2022, in seno alla figura della “ristrutturazione trasversale” del concordato preventivo in continuità, idonea a pervenire ad una omologazione per via di cross-class cram-down, in caso di dissenso di una o più classi, che giunge al limite di poter prescindere perfino dal consenso di una maggioranza delle classi (purché lo approvi almeno una classe di creditori impaired rispetto all’ordine consueto delle preferenze: vi torneremo) la c.d. “regola della priorità relativa” (Relative Priority Rule, d’ora in poi anche RPR); dizione questa espressamente richiamata infatti dalla relazione illustrativa allo stesso D.Lgs. n. 83/2022 [9], che ricollega la succitata previsione dell’art. 84, comma 6, CCII, quale suo recepimento, all’art. 11, paragrafo 1, lettera c), della Direttiva Insolvency, di cui più avanti più in dettaglio si dirà.
È per tale via di diretta derivazione europea, dunque, che si staglia ora nel panorama italiano del diritto della crisi e dell’insolvenza un nuovo, articolato sistema di regole di distribuzione, incentrato sulla combinazione di criteri di priorità, differenziati in termini di regola di priorità “assoluta” [10] e “relativa” [11], nel trattamento delle pretese patrimoniali in seno alla ristrutturazione dell’impresa in crisi.
E ciò ha avuto luogo – abbastanza di recente e in tempi tutto sommato brevi – attraverso un trapianto legale di concetti e di una nomenclatura di fonte internazionale prima, con matrice nel diritto concorsuale statunitense, poi accolti – ma con differenze non lievi di contenuto – a livello europeo e infine approdati nel contesto domestico. Concetti e nomenclatura fin qui distanti dalla cultura di diritto concorsuale italiana, adusa a maneggiare piuttosto i temi e concetti della par condicio creditorum, con riferimento alle regole sul concorso dei creditori e sul rispetto delle cause di prelazione, con epicentro sull’art. 2741 c.c., collegato alla disciplina dell’ordine dei privilegi e del rapporto con le garanzie reali.
Per comprendere meglio il senso di questa assai significativa modificazione (più che altro, in chiave di integrazione) di paradigmi legali e interpretativi, converrà allora anzitutto ripercorrere, sia pure brevemente, la genesi e lo sviluppo di quei concetti e della citata nomenclatura nell’orizzonte statunitense e poi in quello europeo, per poi tornare alla recente disciplina italiana in esame.
2 . La c.d. absolute priority rule o APR. Origini e interessi tutelati
Di una regola di priorità assoluta – absolute priority rule – si parla tradizionalmente nel diritto concorsuale statunitense, quale vera e propria “pietra angolare” di quel sistema [12], formatosi nella disciplina delle Corporate Reorganization a partire dalla grande crisi delle Railroads Corporations alla fine del XIX secolo, e dalla necessità di procedere alla loro ristrutturazione contemperando la salvaguardia dell’integrità dell’impresa con la protezione dei diritti dei creditori e delle legittime aspettative dei soci.
È, segnatamente, nell’ambito dell’utilizzo a tal fine degli istituti dell’equity receivership e della composition, nel vigore del Bankruptcy Act del 1867 e poi del 1898, al fine di ottenere l’approvazione giudiziale di un piano di ristrutturazione dei debiti e della stessa impresa in grado di imporsi anche ai creditori dissenzienti, che comincia a delinearsi storicamente il principio generale denominato “absolute priority rule” [13] (d’ora in poi anche “APR”), secondo cui i creditori coinvolti nel riassetto devono vedersi riconosciuto lo stesso rango delle loro pretese patrimoniali, con il relativo ordine di priorità nel soddisfacimento che spetterebbe loro secondo le regole generali anche al di fuori del concorso attivato nel contesto della crisi (under nonbankruptcy law), rispetto ai creditori di rango inferiore ed ai soci della corporation [14].
Il mantenimento di tale ordine di priorità non consente in particolare che né i creditori di rango inferiore (junior creditors) né i soci possano ricevere alcun soddisfacimento o mantenere interessi nell’impresa ristrutturata, a meno che i creditori di rango poziore (senior creditors) non siano pagati per intero; e così richiede che i creditori privilegiati (secured) siano soddisfatti – quantomeno, rispetto al valore del bene oggetto della loro causa di prelazione – prima dei chirografari (unsecured), e che questi ultimi scendendo progressivamente fino alle classi di rango inferiore (junior), quali i creditori commerciali (trade creditors) e i fornitori, siano a loro volta pagati prima che ai soci possa residuare alcunché.
Il che corrisponde del resto, quanto specificamente ai soci, alla peculiarità della posizione da questi assunta nel contesto della liquidazione dell’impresa o della sua crisi, quali residual claimants, portatori cioè di una pretesa residuale sull’eventuale avanzo attivo, postergata al previo soddisfacimento dei creditori, ancora una volta sulla base di una regola di “priorità” comunemente identificata nell’analisi giuseconomica in termini di priority rule.
Nel corso della sua evoluzione, l’indicata regola di “priorità assoluta” assume il significato di una tutela minima per i creditori dissenzienti, da verificare appunto nel (solo) caso di manifestato dissenso, coniugandosi nel Bankruptcy Act del 1898 con l’applicazione del “best interests of creditors test”, sotto forma della possibile approvazione giudiziale del piano di ristrutturazione proposto dal debitore malgrado la mancata approvazione di una minoranza dei creditori, previa verifica del riconoscimento ai dissenzienti almeno di quanto essi avrebbero ottenuto nel contesto di una liquidazione dell’impresa, secondo le regole ordinarie di priorità nel soddisfacimento.
Positivizzata dallo U.S. Bankruptcy Act 1938 (section 7B) e poi trasfusa – passando attraverso gli sviluppi originati dalla celebre decisione della Corte Suprema Northern Pacific Railway Co. v. Boyd [15], avente ad oggetto la protezione dei creditori non privilegiati, segnatamente trade creditors, lasciati insoddisfatti in forza di accordi fra senior creditors e shareholders, che avrebbero conservato a questi ultimi un interesse nell’impresa post ristrutturazione – dal 1978 Bankruptcy Reform Act nello U.S. Bankruptcy Code, l’APR qui si attesta alla section § 1129 del Chapter 11 destinato alla Reorganization, traducendosi:
- alla subsection 1129(a)(7), nella regola di protezione di ciascun creditore appartenente ad una classe falcidiata dal piano (impaired), mediante verifica del riconoscimento in suo favore, qualora egli sia dissenziente, di un trattamento non inferiore a quello ottenibile nel caso di applicazione al debitore della procedura di liquidazione prevista dal Chapter 7 dello U.S. B.C. (il c.d. best interests of creditors test, d’ora in avanti anche “BIT”);
- ed alla subsection 1129(b)(1)(2), nella disciplina secondo cui, in caso di mancata approvazione da parte di una o più classi (legittimate al voto in quanto) impaired, la corte può ciononostante approvare il piano (con il c.d. cram down) a condizione che questo (ferma l’osservanza delle altre condizioni, incluso il superamento del BIT rispetto ai dissenzienti) non discrimini unfairly tali classi rispetto alle altre e sia valutabile come fair and equitable, in quanto rispetti l’ordine delle cause di prelazione e non preveda il soddisfacimento di junior claims o interests prima che i portatori di pretese senior siano stati soddisfatti in conformità al loro rango ( “each class must be paid in full before a class junior to it can get anything” [16]).
Rispetto al rigoroso schema distributivo che ne risulta, nella sua non sovvertibile progressione dall’alto verso il basso, per il quale è corrente il richiamo all’immagine della cascata (waterfall), non manca peraltro l’elaborazione in sede interpretativa di possibili eccezioni o restrizioni all’applicazione, delle quali – oltre quella relativa ai pagamenti riferiti ai contratti in corso di esecuzione (executory contracts) - la più nota e diffusa è la c.d. new value exception, che legittima in particolare i soci a condividere il risultato della ristrutturazione mantenendo interessi nell’impresa, che in base alla loro anzidetta qualità di residual claimant dovrebbero invece essere a ciò preclusi dalla APR, a condizione che tali interessi si riferiscano a nuove risorse apportate dagli stessi soci a sostegno della reorganization e nel limite del loro importo [17].
3 . Criticità della APR
Al di là però di possibili eccezioni e restrizioni, anche nella sua cultura d’origine l’applicazione della APR, pur ritenuta un perdurante presidio di garanzia della corretta allocazione degli interessi delle parti coinvolte (mediante un sacrificio delle loro pretese, e perciò impaired) sul risultato della ristrutturazione, al punto da essere fatta oggetto, come si è ironicamente osservato, di una “religious adherence” [18], non manca di suscitare rilievi critici (si è parlato di una regola “overstated” [19]) e rivelare controindicazioni.
Un primo ordine di inconvenienti deriva dalla necessità, onde verificare correttamente tanto il BIT quanto la regolare applicazione dell’APR, di procedere ad una valutazione o stima del patrimonio sia attuale che prospettico, quantificando il reorganization surplus da distribuire e insieme il valore alternativo di liquidazione quale termine di comparazione (comparator), il che reca spesso con sé complessi contrasti fra le parti coinvolte, con relative inevitabili lungaggini a detrimento dell’efficacia dell’intervento di ristrutturazione [20].
D’altra parte, la complessità e spesso inattendibilità di una valutazione ex ante comporta il rischio di ritenere erroneamente insussistenti le condizioni per una distribuzione di valore estesa ai creditori junior e ai soci, negando loro la condivisione di risultati che ex post potrebbero invece risultare disponibili, e finendo con il beneficiare eccessivamente i nuovi detentori del controllo dell’impresa ristrutturata (spesso coincidenti con quanti ne erano già senior creditors o con i loro aventi causa) con un rischio di lesione di diritti fondamentali dei junior creditors e (soprattutto) dei soci (equity holders) [21].
Ma il tema in effetti cruciale è quello dell’ostacolo che un’applicazione rigida dell’APR è in grado di frapporre al coinvolgimento dei soci nella ristrutturazione, alla possibilità cioè di consentire loro il mantenimento di interessi e posizioni patrimoniali nell’impresa riorganizzata, senza che si realizzi prima o sia comunque assicurato il soddisfacimento prioritario dei creditori, anche delle classi junior più a ridosso della base della waterfall, ma comunque in linea di principio sovraordinate rispetto alla ricordata residualità delle pretese dei detentori di strumenti di capitale.
Tale ostacolo, e più in generale la prospettiva di essere tendenzialmente tagliati fuori (wiped out), applicando l’APR ad un patrimonio incapiente a fronte dell’indebitamento complessivo, da ogni condivisione dei benefici della reorganization, finisce con il risolversi in un potente disincentivo per i soci ad attivare precocemente gli strumenti disponibili di ristrutturazione preventiva, spingendoli piuttosto a proseguire la gestione confidando in un miglioramento di scenario e ritardando così le necessarie iniziative di risanamento [22], o peggio motivandoli a condotte azzardate.
Di contro, per gli stessi creditori secured o comunque senior può esservi un serio interesse a coinvolgere gli shareholder nella riorganizzazione (“to keep old equity in the picture”) e con essi anche i junior creditors come i creditori commerciali, specie quando si tratti di piccole e medie imprese (SME) di cui gli stessi soci siano gli amministratori o manager: un coinvolgimento che può dimostrarsi strategico sia per una più agevole e rapida liquidazione degli asset non suscettibili di reimpiego nella riorganizzazione, sia e ancor più per una proficua riattivazione delle condizioni di continuità e integrità dell’impresa, in considerazione del patrimonio di conoscenze sulla clientela, i prodotti, il mercato di riferimento, il know how, gli eventuali segreti di fabbricazione e via così esemplificando, di cui quei soci sono assai spesso i detentori, oltre che a mantenere o ricostituire la trama dei rapporti commerciali con una fondamentale categoria di junior come i trade creditors.
Ed è appunto a fronte degli intralci derivanti dalla eccessiva rigidità della APR rispetto a simili obbiettivi, che nello stesso ordinamento statunitense una riforma del febbraio 2020 è intervenuta nel tessuto del Ch. 11 dello United States Bankruptcy Code, introducendovi un Subchapter V, la cui Section 1181(a) prevede la disapplicazione dell’APR alle Small Business Debtor Reorganization.
4 . Modelli di relative priority rule negli U.S.
D’altra parte, già nella letteratura giuridica americana sì è più volte affacciata l’elaborazione di una forma di relative priority, alternativa alla APR, ma con significati abbastanza diversi dal modo in cui oggi si parla di “priorità relativa” nel contesto europeo e adesso anche italiano.
Così, in uno scritto del 1928 due studiosi della Columbia University, James Bonbright e Milton Bergerman [23], in un contesto in cui ancora vigeva lo strumento dell’equity receivership (sulla cui base la reorganization poteva aver luogo mediante una forma di vendita forzata da parte del receiver del patrimonio dell’impresa, in favore del reorganization committee, quale rappresentante unitario delle classi interessate di creditori e di soci, dietro pagamento di un upset price giudizialmente fissato in misura sufficiente da consentire al receiver di provvedere con tale incasso al pagamento cash - ancorché falcidiato - delle pretese interessate dalla ristrutturazione, ivi inclusi i creditori dissenzienti che avessero rifiutato di convertire le loro precedenti pretese in rinnovati interessi e titoli patrimoniali nella nuova società esito della riorganizzazione) proponevano una “alternative doctrine of apportionment-the doctrine of relative priorities”, consistente in sostanza nella possibilità di derogare alla APR mediante attribuzione di nuove quote e interessi nell’impresa ristrutturata ai creditori junior e ai soci, dietro pagamento da parte loro di un controvalore (assessment) che, traducendosi nell’apporto di nuovo capitale, avrebbe beneficiato anche i senior creditor: una sorta di risalente versione della new value exception, in definitiva [24], in funzione di incentivo a junior creditors e soci a finanziare la reorganization [25] confidando nei suoi positivi risultati futuri, mercè i quali recuperare i propri interessi messi in forse dalla crisi ed entro questa sacrificati dall’APR.
Una proposta di RPR U.S. style, benché non testualmente etichettata come relative priority, veniva assai più tardi avanzata da Anthony J. Casey, studioso di Chicago, in un saggio del 2011, in termini pur sempre alternativi all’applicazione rigorosa dell’APR, definendosi come “Option-Preservation Priority”.
L’assunto di base di tale proposta – sui cui mette conto soffermarsi brevemente, per il meccanismo di option al suo nucleo, che come vedremo è ricorrente nel dibattito U.S. – procede dal rilievo per cui in una reorganization, applicando l’APR, i secured creditors hanno titolo a soddisfarsi sull’intero valore futuro fino all’importo nominale delle loro pretese, e i junior creditors possono soddisfarsi soltanto sul valore futuro che risulterà eventualmente eccedente l’importo nominale delle pretese dei senior; ciò significherebbe che l’interesse dei junior “è l’equivalente di una call option con un prezzo di esercizio pari al valore nominale del debito senior”[27], nel senso – sembra – che lo schema distributivo anzidetto giustificherebbe una decisione dei junior di soddisfare per intero le pretese dei senior, onde così acquisire il controllo dell’impresa riorganizzata ed appropriarsi dello sperato valore residuo.
Per proteggere tale aspettativa dei junior, la tesi in discorso ipotizza allora un meccanismo distributivo secondo il quale, nella riallocazione dell’impresa in sede di reorganization, l’odine di priorità da seguire vedrebbe:
- al primo posto il diritto dei senior al valore di liquidazione dell’oggetto della loro garanzia (collateral);
- al secondo posto il valore dell’opzione anzidetta (ritenuta) sottesa alla posizione dei junior;
- infine il diritto dei senior al valore residuo, detratto il valore della junior option, che sarebbe allora da liquidare anticipatamente, fino all’importo nominale delle loro pretese.
Per questa via, i senior potrebbero appropriarsi dell’intero valore dell’impresa in ristrutturazione, solo dopo aver riscattato – pagandone il controvalore – i diritti di opzione dei junior[28].
L’idea di una call option insita nella posizione degli investitori junior, per il fatto di poter confidare sulla possibilità di conseguire il futuro residuo attivo netto dell’impresa ristrutturata, previo pagamento ai senior dell’intero importo delle loro pretese, e perciò della riferibilità ai junior di una opzione suscettibile di essere anche anticipatamente monetizzata, mediante cessione a terzi oppure liquidazione ex ante da parte dei senior, prima del maturare delle condizioni per il suo esercizio, torna sia pure in forme e con accenti diversi in un saggio di Douglas G. Baird del 2017[29], nella veste di una proposta di formale riconoscimento di tale meccanismo di opzione, onde correggere i possibili esiti distorsivi di un’applicazione rigida della APR.
Anche la proposta formulata nel 2014 dalla Commissione di studio per la riforma del Ch. 11, istituita dall’American Bankruptcy Institute (ABI)[30] fa riferimento allo schema di un’opzione ipotetica, qui vista come spettante alle immediately junior classes, cioè alle classi di stakeholder (creditori o soci) che, pur apparendo out of the money al momento dell’approvazione del piano (cioè non legittimati a ricevere alcunché, stante l’incapienza delle risorse a soddisfare per intero i senior), potrebbero invece in futuro risultare in the money per effetto di un eventuale surplus del reorganization value dell’impresa, che in tempo successivo finisca positivamente per eccedere rispetto al soddisfacimento integrale di tutte le senior classes, e perciò godrebbero di una prerogativa al riscatto (redemption) dell’impresa riorganizzata dietro pagamento ai senior delle loro pretese. Una prerogativa questa con un proprio valore economico (redemption option value) che – mediante una modifica della section 1129(b) Ch. 11 BC, proposta dalla Commission[31]– dovrebbe essere riconosciuto in seno al piano, quale condizione per la sua confirmation in caso di non accettazione delle immediately junior classes ed in loro favore, anche in via di eccezione alla APR in caso di mancato soddisfacimento integrale delle senior classes.
5 . Precedenti della RPR EU style. Il Report dello European Law Institute (ELI) del 2017
Abbastanza diverso, rispetto ai modelli prima ricordati, è il volto della RPR che fa il suo ingresso, nell’ultima fase della sua elaborazione normativa – non c’era infatti nel Draft del 2016, mentre compare solo in quello di fine 2018 –, nella Direttiva n. 1023/2019, all’art. 11, § 1, lett. c), nel quale la RPR si atteggia piuttosto quale criterio di superamento del dissenso di classi di creditori senior non soddisfatti integralmente, purché ricevano un trattamento almeno altrettanto favorevole rispetto alle classi di pari rango e più favorevole di quello delle classi inferiori; e insieme come regola di (solo) indiretta tutela dei creditori junior e dei soci/detentori di strumenti di capitale, per il fatto di legittimare così al contempo una differenziazione del trattamento fra le classi, che consente di distribuire valore anche alle classi sottordinate (unsecured creditors, junior creditors, shareholders), alla sola condizione di un trattamento più favorevole per le classi superiori, benché solo parzialmente soddisfatte.
In altre parole, la logica dell’art. 11 della Direttiva non sembra quella di una diretta salvaguardia degli interessi dei junior creditors e degli shareholders, mediante il riconoscimento a questi di prerogative o aspettative di soddisfacimento, come nel dibattito sulla RPR U.S. style, bensì quella di facilitare il superamento degli eventuali dissensi e l’omologazione dello strumento di regolazione della crisi: è cioè una regola per il cramdown, con assecondamento solo indiretto di una maggiore flessibilità nella distribuzione del valore anche a vantaggio di junior e soci, superando le rigidità della APR.
Ma da dove proviene la RPR EU style?
Fra i precedenti della Direttiva, di una RPR come possibilità di deroga alla APR in determinate circostanze parla anzitutto il Report dello European Law Institute (ELI) del 2017, dal titolo “Rescue of Business in Insolvency Law”[32], contenente una diffusa analisi delle legislazioni nazionali europee, oltre che della letteratura giuridica internazionale in materia di crisi d’impresa, che culmina nella formulazione di una serie di raccomandazioni finali agli Stati membri.
In particolare, l’ELI Report pone al centro del suo esame la posizione dei soci, quali oggetto di necessaria considerazione in quanto investors nell’impresa accanto ai creditori, al fine di: per un verso, coinvolgerli nelle decisioni relative al piano, tenuto conto dei suoi possibili effetti sulla struttura societaria (attraverso debt to equity swap, trasferimenti di quote o emissioni di nuove azioni o quote), facilitando l’attuazione di questo, e per converso scongiurando possibili veti o intralci da parte dei soci attuali (hold shareholders) all’adozione delle necessarie deliberazioni[33]; per altro verso, evitare di sacrificare indebitamente i residui interessi dei vecchi soci nell’impresa - collidendo con diritti fondamentali come la libertà di iniziativa economica, la libertà di stabilimento e il diritto di proprietà – con particolare riguardo ad eventuali valori attuali o futuri come il going concern value dell’impresa riorganizzata, cui gli stessi soci potrebbero conservare diritto pur tenuto conto dell’APR, che li confina ad una posizione del tutto residuale nell’ordine delle priorità.
In quest’ottica, vengono presi in considerazione nel Report:
- il modello tedesco, che nella disciplina dell’Insolvenzplan prevede l’inserimento dei soci nel piano (§§ 217, 225a Insolvenzordnung) in una classe ammessa al voto, con possibilità di superarne il dissenso attraverso il cram down (§ 245 InsO, Abs. 1 e 3), a condizione che il piano ne preveda: un trattamento non inferiore a quello realizzabile in sede di liquidazione (normalmente pari a zero, in assenza di un plusvalore di continuità); un’equa condivisione dell’eventuale reorganization value, sia pure in ossequio alla APR e perciò subordinatamente al soddisfacimento integrale dei creditori;
- il modello inglese, che nella disciplina dello Scheme of Arrangement (Companies Act 2006, s. 895 ss.) e dei Company Voluntary Arrangements (Insolvency Act 1986, s. 3 e 4A) prevede che i soci siano inclusi in una separata classe ammessa al voto e che il loro eventuale dissenso possa essere neutralizzato se in base ad una valutazione della società la classe dei soci “has no real economic interest” nell’impresa, non è cioè “in the money” o in altre parole non ha prospettiva di ricevere alcunché, in applicazione dell’ordine generale delle cause di prelazione;
- il modello francese, dove l’art. L 631-19-2 Code de Commerce, come introdotto dalla c.d. loi Macron nel 2015, prevede che nelle società (o gruppi cui la società debitrice appartiene) con più di 150 dipendenti, il tribunale possa nominare un commissario giudiziale, con il potere di convocare una assemblea per l’assunzione di decisioni relative alla struttura del capitale della società e determinarne gli esiti esercitandovi il voto dei soci, o di trasferire quote a terzi, ove la crisi dell’impresa generi un pericolo per l’economia e l’occupazione e allorché la ristrutturazione del capitale sia l’unica soluzione per evitare la dissoluzione della società e consentire la prosecuzione dell’attività.
Su queste basi, il Report propone di elaborare soluzioni normative che prevedano sì l'inclusione dei soci in una classe separata ammessa al voto, con possibilità di superarne l’eventuale dissenso mediante un meccanismo di cross-class cram-down; tuttavia, nella valutazione della posizione dei soci in tale contesto rispetto ai creditori, l’ELI Report pone in discussione, contestandone la base giuridica e razionale, che l’applicazione dell’APR possa giustificare che l’extra value extracted in a restructuring, il surplus cioè della riorganizzazione, debba essere prioritariamente destinato, fino a soddisfacimento integrale, ai soli (veri e propri) creditori, i quali peraltro in un contesto liquidativo avrebbero diritto soltanto ai valori di realizzo; e ciò tanto più allorquando il surplus in questione possa essere generato soltanto in virtù della cooperazione da parte dei soci.
D’altra parte, la neutralizzazione del veto opposto dai soci, allorquando essi siano da considerare “out of the money” in applicazione dell’APR, rispetto a valori incapienti a soddisfare i creditori, negando così ai soci l’aspettativa legittima a condividere l’extra value della riorganizzazione, confliggerebbe con diritti fondamentali come quello di proprietà e di iniziativa economica.
In tal senso, la proposta del Report è nella direzione di un “balanced cross-class cramdown”, sulla base di un piano qualificabile fair and equitable allorché debitamente distingua il trattamento dei soci in due categorie, a seconda delle condizioni del loro investimento.
La prima categoria è quella dei soci divenuti tali in un’ottica di mero investimento finanziario, come tali avendo consapevolmente optato, tra le varie forme di investimento possibili, per la posizione di residual claimant tipica degli shareholders, sottordinata nell’applicazione della comune gerarchia delle cause di prelazione e connesse priorità a tutte le classi di creditori. Rispetto a tali soci l’applicazione dell’APR, anche nell’allocazione dell’extra value da ristrutturazione, per un verso risulterebbe conforme alla natura della loro stessa decisione di investimento, fermo il limite che nessun creditore debba ricevere più dell’intero importo del suo credito; per altro verso non sarebbe però necessitata, anzi nulla impedirebbe che il piano mantenga questi stessi soci in the capital structure dell’impresa riorganizzata, purché li subordini nella distribuzione del relativo valore al previo pagamento delle pretese rispetto a loro senior, nella misura non necessariamente integrale prevista dal piano: basterebbe perciò al tal fine una mera graduazione del trattamento, più favorevole per i senior che per i junior e infine per i soci, che la proposta espressamente definisce come relative priority.
D’altra parte, il Report ipotizza che una possibile contestazione da parte dei junior creditors, in quanto comunque sovraordinati agli shareholders quali residual claimants, possa essere disinnescata – al di là dell’applicazione della già vista new value exception – attraverso la previsione di una mandatory purchase option attribuita ai soci, che consentirebbe loro di liquidare in ogni caso i junior e trattenere l’eventuale residuo. Nel che è una variante della call option riconoscibile ai soci alla stregua del dibattito U.S. degli ultimi decenni.
La seconda categoria è quella dei soci non già meri investitori, bensì coinvolti nella gestione o comunque apportatori di servizi o abilità personali (soft variables contributors), i quali meriterebbero una maggiore protezione allo scopo sia di assicurarne la durevole collaborazione al buon esito del tentativo di ristrutturazione dell’impresa sia quale incentivo ad un loro un approccio favorevole all’avvio ed alla coltivazione degli strumenti di ristrutturazione, ed alla tempestività dell’intervento.
Per soci siffatti, la proposta è nel senso di una salvaguardia molto accentuata, che giunge a richiedere che essi siano tenuti unimpaired o che comunque approvino necessariamente il piano, sia pure a maggioranza, con esclusione di una imposizione per via di cross-class cram-down[34].
6 . Il rapporto del Co.Di.RE.
Il precedente più immediato della RPR EU style si ritrova però nel Final Report, dal titolo “Best Practices in European Restructuring”, del Progetto di ricerca “Contractualised Distress Resolution in the Shadow of the Law” (d’ora in avanti anche “Co.Di.Re”)[35], finanziato dalla Commissione europea e pubblicato nel 2018.
Si tratta di un ampio studio condotto con riferimento alle normative e prassi nazionali di 4 ordinamenti – Germania, Italia, Spagna, UK – che si conclude con Guidelines rivolte ai protagonisti delle ristrutturazioni di imprese in crisi e Policy Recommendations agli attori politici a livello europeo e nazionale.
Coltivando una concezione attiva del ruolo del giudice chiamato ad approvare lo strumento di ristrutturazione dell’impresa in crisi, nell’esercizio di una funzione che si vuole non riducibile a quella di mero suggello (rubber-stamp) degli esiti di un’approvazione a maggioranza, bensì di integrazione dell’autonomia privata e di verifica e garanzia della correttezza del procedimento, il Report – all’interno del II Cap. intitolato alla fairness [36]– individua e propone le ritenute condizioni per una conferma giudiziale del piano che non abbia ottenuto la richiesta approvazione da parte dalle classi di stakeholders interessati (affected, i cui diritti o interessi, cioè, ne siano lambiti).
Ed è appunto in quest’ottica, cioè del possibile superamento giudiziale del dissenso dei portatori di interessi incisi dal piano di ristrutturazione, in altre parole di un cram down, che il documento[37] delinea fra le condizioni richieste l’osservanza della “relative priority rule”[38], nel senso che: “(i) ciascuna classe dissenziente riceva un trattamento almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango; (ii) nessuna classe di rango inferiore riceva un trattamento equivalente o migliore; e (iii) le classi di rango superiore non ricevano più dell'intero valore economico attuale delle loro pretese”.
La così espressa regola di priorità relativa – in termini di cui evidente è la consonanza con il disposto dell’art. 11, § 1 lett. c) della Direttiva, come subito si vedrà, e con le ricordate disposizioni dell’art. 84, comma 6, e dell’art. 112, comma 2, lett. b) del CCII italiano – viene in particolare giustificata come alternativa preferibile rispetto agli inconvenienti della APR, per il fatto, da un lato, che il regime della priorità assoluta varrebbe da indesiderabile incentivo al dissenso ostruzionistico (hold-out incentive) da parte di quei creditori che, confidando nell’approvazione del piano di ristrutturazione da parte delle altre classi, profitterebbero poi del rango garantito dalla rigidità dell’APR per esigere il pagamento integrale a spese degli aderenti, mentre per converso la RPR faciliterebbe l’omologazione di piani che consentano ai soci di mantenere interessi nell’impresa; il che a sua volta – specie nel caso di MSMEs – incentiverebbe un più ampio e tempestivo ricorso agli strumenti di ristrutturazione e la possibilità di avvantaggiarsi del patrimonio di conoscenze, competenze e buone volontà riferibili ai soci, oltre a contrastare possibili manovre di speculatori che ambiscano a convertire i “distressed debts” acquisiti in quote di capitale del debitore maggiori del valore attuale delle loro pretese.
L’osservanza della RPR viene proposta nel Report traducendosi nella Policy Recommendation #2.16 “Conditions for confirmation of a plan that has not been approved by each affected class of stakeholders), come una delle condizioni perché il piano, pur non avendo ottenuto l’approvazione da parte delle classi di creditori interessati, dimostri di trattare fairly le classi dei dissenzienti (nel che è una riconoscibile eco del carattere fair and equitable del piano, non approvato dalle classi impaired, ai sensi del § 1129(b) U.S. B.C.) insieme ad altri due requisiti: a) che risulti soddisfatto il best-interest test; b) che almeno una delle classi di creditori impaired in base al piano lo abbia approvato con la richiesta maggioranza.
Si tratta ancora di previsioni (la seconda delle quali simile a quella contenuta al § 1129(a)(10) U.S. BC)[39] di cui innegabile è la somiglianza con previsioni della Direttiva, segnatamente l’art. 10, § 2, c), in tema di verifica del best interest, e l’art. 11, b), ii), sui requisiti di approvazione, come a breve meglio si vedrà.
Quanto specificamente al BIT che, affiancandosi alla RPR quale condizione per l’omologazione in caso di dissenso, appare così controbilanciare la RPR quale correttivo rispetto a possibili abusi ai danni del singolo dissenziente[40], è interessante notare come il Co.Di.RE. Report, nella sua Policy Recommendation #2.14, n. 5: da un lato indichi come oggetto della relativa tutela non solo i creditori ma anche gli equity holders dissenzienti; dall’altro lato individui in modo parzialmente diverso il termine di comparazione (comparator) rispetto al quale misurare il trattamento minimo cui il dissenziente a diritto, che non è qui – come di consueto – solo quello liquidatorio, e per di più di una liquidazione atomistica (piecemeal sale), bensì più ampiamente lo scenario alternativo più probabile, realizzabile nel caso in cui il piano non venisse omologato (“at least as much as they would receive if the plan were not approved”). Uno scenario alternativo che potrebbe allora essere costituito, ad esempio: da una going concern sale, cioè da una vendita in blocco dell’azienda in esercizio dentro o fuori un contesto di procedura concorsuale liquidativa; o ancora dall’approvazione di una proposta di piano concorrente, messa ai voti qualora la prima non venisse approvata e omologata[41].
Anche qui, le indicazioni del Report trovano una significativa rispondenza nelle previsioni della Direttiva alla quale, sotto i profili oggetto di queste note, è tempo ora di volgere più da vicino l’attenzione.
7 . La “priorità relativa” e la “ristrutturazione trasversale” nella Direttiva Insolvency
In effetti, in virtù delle modifiche apportate nell’ultima fase della sua elaborazione, alla fine del 2018, la Direttiva n. 1023/2019 sembra accogliere integralmente le raccomandazioni di politica legislativa del Co.Di.RE. (ne danno atto tanto i critici [42] quanto gli stessi autori del Report [43]) a livello di soluzioni e prima ancora di giustificazione di un mutamento di paradigmi normativi, legittimando l’applicazione di un regime di priorità relativa e, in base a questo, di ristrutturazione trasversale o cross-class cram-down (in caso di dissenso di una o più classi: perfino di tutte tranne una, purché quest’ultima composta da “parti interessate” - affected parties - dal piano), idoneo ad assecondare l’approvazione del piano di ristrutturazione favorendo l’inclusione “in the picture” dei diritti dei creditori junior strategici e (soprattutto) dei soci.
Una direzione, quest’ultima, coerente con la linea culturale di cui si è prima sinteticamente osservata l’emersione, nel senso di un tendenziale coinvolgimento dei soci nei benefici della ristrutturazione, onde favorirne l’avvio e assicurarne il buon esito, in un’ottica esprimibile nella sua formula estrema come “Keine Reorganisation ohne die Gesellschafter” [44].
Eloquente è anzitutto, sul piano delle giustificazioni, il Cons. n. 56, secondo cui “Gli Stati membri dovrebbero poter derogare alla regola della priorità assoluta, se ad esempio si consideri giusto che i detentori di strumenti di capitale mantengano determinati interessi ai sensi del piano, nonostante che una classe di rango superiore sia obbligata ad accettare una falcidia dei suoi crediti, o che i fornitori essenziali cui si applica la disposizione sulla sospensione delle azioni esecutive individuali siano pagati prima di classi di creditori di rango superiore” [45].
Così come indice di una rinnovata considerazione degli interessi in gioco, inclusiva delle aspettative patrimoniali e del ruolo dei soci, è il Cons. 48, ove si legge che “L'omologazione del piano di ristrutturazione da parte dell'autorità giudiziaria o amministrativa serve per garantire che la riduzione dei diritti dei creditori o delle quote dei detentori di strumenti di capitale sia proporzionata ai benefici della ristrutturazione e che tali soggetti abbiano accesso a un ricorso effettivo”.
Espressione di questo indirizzo è del resto la stessa ampia definizione di “parti interessate” (affected parties) contenuta all’art. 2, par. 1, n. 2 della Direttiva, secondo cui si intendono per tali («parti interessate») non soltanto “i creditori, compresi, se applicabile ai sensi del diritto nazionale, i lavoratori, o le classi di creditori”, bensì anche, “se applicabile ai sensi del diritto nazionale, i detentori di strumenti di capitale, sui cui rispettivi […] interessi incide direttamente il piano di ristrutturazione”.
Su queste basi giustificative, la Direttiva pone quale regola di default il rispetto della “priorità relativa” (RPR), espressa nella modalità più flessibile da ultimo proposta dal Report del Co.Di.RE., disponendo (con un’anticipazione nei cons. n. 53-55) all’art. 11, paragrafo 1, lettera c), che “gli Stati membri provvedono affinché” il piano di ristrutturazione, pur non approvato da tutte le parti interessate in ciascuna classe di voto, possa essere comunque omologato, su proposta del debitore o con l'accordo del debitore, divenendo vincolante per i dissenzienti, se lo stesso piano, fra le altre condizioni minime, “c) assicura che le classi di voto dissenzienti di creditori interessati ricevano un trattamento almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango e più favorevole di quello delle classi inferiori”.
La Direttiva fa salva peraltro [46] l’opzione alternativa per la “regola della priorità assoluta”, all’art. 11, paragrafo 2, comma 1, ai sensi del quale gli Stati membri “possono prevedere che i diritti dei creditori interessati di una classe di voto dissenziente siano pienamente soddisfatti con mezzi uguali o equivalenti se è previsto che una classe inferiore riceva pagamenti o mantenga interessi in base al piano di ristrutturazione”; o anche la scelta di prevedere una forma di APR “temperata”, nel senso di “mantenere o introdurre disposizioni che derogano al primo comma, qualora queste siano necessarie per conseguire gli obiettivi del piano di ristrutturazione e se il piano di ristrutturazione non pregiudica ingiustamente i diritti o gli interessi delle parti interessate” (art. 11, par. 2, comma 2).
Accanto alla RPR EU style, il cui rispetto, come anticipato, è qui richiesto come requisito per l’omologazione giudiziaria o amministrativa, nella chiave di una sua facilitazione, lo stesso art. 11 della Direttiva pone fra le altre condizioni per la ristrutturazione trasversale o “cross-class cram-down”, di cui ai suoi considerando 49, 53-55:
- al comma 1, b), ii), in caso di mancata approvazione dalla maggioranza delle classi di parti interessate (di cui almeno una di creditori garantiti o comunque di rango superiore alla classe dei non garantiti), che il piano sia stato approvato “da almeno una delle classi di voto di parti interessate o […] che subiscano un pregiudizio”; previsione questa sovrapponibile a quella prima vista, contenuta nella Policy Recommendation #2.16, al n. 2) (i)(ii), del Co.Di.RE. Report (a sua volta, come segnalato, simile a quella prevista dalla S. 1129(a)(10) U.S. BC);
- al comma 1, d), che nessuna classe di parti interessate possa “ricevere o conservare in base al piano di ristrutturazione più dell'importo integrale dei crediti o interessi che rappresenta”, previsione anche questa consonante con quella contenuta nella Policy Recommendation #2.16, al n. 2) (iii), del Co.Di.RE. Report.
Anche alla “ristrutturazione trasversale” (cross class cram-down) si applica peraltro (in virtù del richiamo fattovi nell’art. 11, par. 1, a) la condizione prevista per l’omologazione dall’art. 10, par. 2, lett. d), la quale richiede che “d) nel caso vi siano creditori dissenzienti, il piano di ristrutturazione superi la verifica del migliore soddisfacimento dei creditori”, cioè “the best-interest-of-creditors test” (nel testo inglese della Direttiva).
Quest’ultimo è d’altra parte definito, all’art. 2, n. 6, in termini ancora una volta consonanti con la proposta del Co.Di.Re Report, Policy Recommendation #2.14, n. 5 (ove il già visto riferimento allo scenario alternativo, non soltanto liquidatorio, nel caso in cui il piano non venisse approvato), allargando il termine di comparazione, onde valutare il trattamento minimo di salvaguardia del dissenziente, alla liquidazione non solo atomistica (“per settori” recita il testo italiano, con cattiva traduzione – sembra – del testo inglese “piecemeal”) bensì anche in blocco e “in regime di continuità aziendale (“sale as a going concern”), o in alternativa e ancora più ampiamente al “migliore scenario alternativo possibile se il piano di ristrutturazione non fosse omologato” [47].
La già avvistata logica di favore per il coinvolgimento dei soci/equity holder nella ristrutturazione sottesa alla prevista flessibilizzazione delle regole di priorità nella distribuzione del reorganization value si esprime ulteriormente in disposizioni specifiche riguardanti i soci ed i loro poteri e diritti – sia in termini di prerogative che di loro limiti – nell’ambito della ristrutturazione dell’impresa in crisi.
Così, i rilievi in tema di diritto di voto dei soci contenuti nel Cons. 43, secondo il quale “ove consentito dal diritto nazionale, i detentori di strumenti di capitale dovrebbero avere diritto di voto in merito all'adozione del piano di ristrutturazione”, e nel Cons. 58 che contempla la possibilità di istituire a tal fine “diverse classi di detentori di strumenti di capitale qualora sussistano diverse classi di azionisti con diritti diversi”, trovano rispondenza all’art. 9, nella previsione per cui “2. Gli Stati membri provvedono affinché le parti interessate abbiano diritto di voto sull'adozione di un piano di ristrutturazione”, in collegamento con la già vista ampia definizione di “parti interessate” contenuta all’art. 2, par. 1, n. 2 [48].
Al contempo, la Direttiva di preoccupa di scongiurare un esercizio abusivo o ostruzionistico dei diritti dei soci, che ostacoli indebitamente l’approvazione ed attuazione del piano. A tal fine, sulla base dei rilievi contenuti al Cons. n. 57 (secondo il quale, “Sebbene sia necessario tutelare i legittimi interessi degli azionisti o altri detentori di strumenti di capitale, gli Stati membri dovrebbero garantire che essi non possano impedire irragionevolmente l'adozione di un piano di ristrutturazione che ripristinerebbe la sostenibilità economica del debitore”), l’art. 12 della Direttiva prevede che “gli Stati membri provvedono con altri mezzi affinché ai detentori di strumenti di capitale non sia consentito di impedire o ostacolare irragionevolmente l'adozione e l'omologazione” (par. 1) così come “l’attuazione di un piano di ristrutturazione” (par. 2).
8 . Nel CCII: surplus concordatario e “relative priority rule”
È in attuazione delle suesposte previsioni della Direttiva n. 2019/1023 che – come anticipato – soltanto nell’ultima fase di gestazione del nuovo Codice della Crisi [49], a meno di un mese dalla sua entrata in vigore (15.7.2022), per effetto delle modifiche apportate dal D. lgs. 17 giugno 2022, n. 83, fanno ingresso nel corpo del d.lgs. n. 14/2019 (CCII) le nuove e prima richiamate previsioni in tema di priorità relativa e ristrutturazione trasversale nel concordato in continuità aziendale, di cui agli artt. 84, comma 6, e 112, comma 2, lett. b), CCII; cui vanno ad aggiungersi le disposizioni specificamente dettate in tema di attribuzioni ai soci, agli artt.120 ter e 120 quater CCII, su cui per ultimo ci si soffermerà.
Avendone già richiamato il contenuto in apertura del discorso, ci si può limitare ora, sulla scorta anche della ricostruzione dei precedenti culturali e normativi della attuale disciplina italiana, a sottolineare alcuni aspetti specifici.
Anzitutto, la regola di priorità relativa appare dettata dagli artt. 84 comma 6 e 112 comma 2 lett. b, in termini del tutto coincidenti con la previsione dell’art. 11, par. 1, comma 1, lett. c), della Direttiva, e perciò con l’ampiezza e flessibilità che si è visto contraddistinguere la RPR EU style nella Direttiva, in forme abbastanza distanti dalle proposte di RPR prima diffuse nel panorama internazionale a partire dal dibattito statunitense.
La precisazione in sede applicativa di cosa significhi trattamento “almeno pari” e trattamento “più favorevole”, al di là di mere differenziazioni formali o irrisorie, scongiurando i possibili abusi e distorsioni segnalati dalla dottrina critica riguardo alla RPR U.S. style, sarà la sfida del tempo che ci attende [50].
Va notato che l’applicazione della RPR è espressamente circoscritta dal CCII al “valore eccedente quello di liquidazione” [51]; una delimitazione che appare anch’essa fonte di possibili difficoltà e incertezze applicative e che non si ritrova testualmente nell’art. 11 della Direttiva, la quale appare invece riferirsi, nel porre le relative regole di distribuzione, all’intero valore nascente dal piano di ristrutturazione, cui applicare l’alternativa fra la RPR di cui al par. 1 lett. c) e la APR di cui al comma 2. In questo senso può forse parlarsi della priorità relativa del CCII come di una RPR “temperata”, nella misura in cui si applica solo al plusvalore di continuità.
La nozione di going concern value non è peraltro estranea alla Direttiva, che al Cons. n. 49 individua il “valore di continuità aziendale” nel “valore a lungo termine dell'impresa del debitore”, come di norma “superiore al valore di liquidazione, poiché si basa sull'ipotesi che l'impresa continua la sua attività con il minimo di perturbazioni, ha la fiducia dei creditori finanziari, degli azionisti e dei clienti, continua a generare reddito e limita l'impatto sui lavoratori”.
Se, come nella disciplina italiana, il reorganization surplus viene fatto oggetto di individuazione separata, esso richiede però una “valutazione del debitore in regime di continuità aziendale”, da differenziare dal valore di liquidazione, a sua volta peraltro da distinguere – come prima accennato – a seconda che si tratti di una liquidazione atomistica o invece in blocco o ancora dell’intera azienda in esercizio as a going concern (cfr. di nuovo il Cons. 49, primo periodo, e l’art. 2, comma 1, n. 6, della Direttiva).
La Direttiva, prescindendo da tale distinzione nell’individuare le regole di distribuzione del valore in base al piano di ristrutturazione – ristrutturazione che, ai sensi della definizione contenuta all’art. 2 n. 1, può svolgersi nelle forme della continuità diretta o anche indiretta, in tale seconda ipotesi avendo ad oggetto cioè, “se previsto dal diritto nazionale, la vendita dell'impresa in regime di continuità aziendale” – esime dal dover procedere immancabilmente ad una simile duplice valutazione (valore di liquidazione/valore di continuità), in sede di verifica dei presupposti della ristrutturazione trasversale di cui all’art. 11 par. 1, limitando l’esigenza di una “valuation of the debtor as a going concern” al caso di mancata approvazione dalla maggioranza delle classi, allorché – a norma dell’art. 11, par. 1, lett. b), (ii), recepito nel CCII dall’art. 112, comma 2, lett. d), per il concordato in continuità aziendale – occorre in alternativa che il piano sia approvato da almeno una classe di voto di parti interessate, diversa da una classe di equity holder o altra classe che, se anche sul valore di continuità venisse applicato il “normale grado di priorità di liquidazione a norma del diritto nazionale”, non riceverebbe comunque pagamenti né manterrebbe interessi (una classe cioè che non è unicamente interessata a scommettere sulla ristrutturazione e sull’applicazione di un regime di priorità relativa, per poter ricevere alcunché).
La stessa Direttiva confina invece la necessità di una valutazione del valore di liquidazione al solo caso di contestazione del piano di ristrutturazione da parte di creditori dissenzienti in ordine alla verifica del best interest of creditors test (cfr. art. 10, par. 2, comma 1, lett. d), e comma 2), come definito dall’art. 2, n. 6, con riferimento allora al valore che sarebbe disponibile per gli stessi creditori “in caso di liquidazione”, “oppure nel caso del migliore scenario alternativo possibile” ove il piano non fosse omologato, secondo l’ampia concezione del BIT di cui si è già detto.
Il testo attuale del CCII, sia all’art. 84 comma 6 che all’art. 112, nel distinguere due regole di distribuzione a seconda del valore in gioco (di liquidazione/eccedente o di continuità), sembra invece finisca col costringere, in caso di applicazione della RPR, ad un accertamento di entrambi i valori anzidetti.
E ciò malgrado il fatto che, al di là delle anzidette previsioni: il valore di liquidazione dovrebbe essere accertato solo in caso di opposizione proposta da un creditore dissenziente, nel concordato in continuità (art. 112, comma 4), o da un creditore dissenziente appartenente a classe dissenziente, nel concordato liquidatorio (art. 112, comma 5), il quale contesti la convenienza della proposta, per il fatto di risultare soddisfatto in misura inferiore all’alternativa di liquidazione; e malgrado l’ulteriore previsione dell’art.112, secondo cui, nel concordato in continuità, “la stima del complesso aziendale del debitore è disposta dal tribunale solo se con l'opposizione è eccepita la violazione della convenienza di cui al comma 3 o il mancato rispetto delle condizioni di ristrutturazione trasversale di cui al comma 2”.
Ora, il punto è che l’opzione per un regime di priorità relativa – per quanto prima osservato ricostruendone la genesi culturale – nasce fra l’altro con l’obbiettivo di scongiurare le incertezze, i possibili contenziosi e le lungaggini generate dalla necessità di una stima dei valori in gioco, che l’applicazione della APR invece tipicamente genera in caso di contestazione. Mentre la limitazione dell’applicazione della RPR al solo going concern surplus nel CCII sembra, per quanto testé osservato, riprodurre gli inconvenienti di una necessaria stima giudiziale, certo non scongiurati dalla previsione dell’obbligatoria indicazione nel piano del “valore di liquidazione del patrimonio, alla data della domanda di concordato, in ipotesi di liquidazione giudiziale” (art. 87, comma 1, lett. c), CCII).
Un’ulteriore notazione può forse svolgersi relativamente al test di convenienza (best interest of creditors test), di cui all’art. 112, commi 3 e 5, CCII, messo a confronto con la già richiamata “verifica del migliore soddisfacimento dei creditori”, prevista dalla Direttiva (agli artt. 2, par. 1, lett. 6, e 10, par. 2, lett. d).
Nel testo italiano attuale, il termine di comparazione è quello del soddisfacimento realizzabile in sede di liquidazione giudiziale (“in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale”), senza recepire la più ampia e prima richiamata accezione del comparator prevista dalla Direttiva, con riferimento alla liquidazione inclusiva sia della “liquidazione per settori” che della “vendita dell’impresa in regime di continuità aziendale” oltre che all’ancora più estesa opzione per la soglia del “migliore scenario alternativo possibile”, e peraltro discostandosi dal parametro di comparazione già previsto dall’art. 180, comma 4, L. fall., più ampiamente riferito “alle alternative concretamente praticabili” [52]. Con una scelta del legislatore italiano da leggersi probabilmente nel senso di voler contenere i delicati problemi valutativi, che potrebbero sorgere dalla necessità di effettuare più stime, tanto più se da porre in graduatoria per l’elezione del “migliore possibile”, che l’articolata previsione europea sembra idonea a suscitare in sede applicativa.
9 . La RPR nelle attribuzioni ai soci secondo il CCII
L’analisi prima condotta dei precedenti dottrinali e normativi ha evidenziato come l’idea stessa di una RPR, quale paradigma alternativo idoneo a correggere le rigidità della APR, consentendo di soddisfare interessi da questa messi in ombra, trovi per lo più giustificazione nell’esigenza di coinvolgere nella distribuzione del valore dell’impresa in crisi oggetto di ristrutturazione, oltre che alcune categorie di creditori junior, e però strategici per il buon esito della reorganization, anche e, in effetti, soprattutto i soci.
Si sono in precedenza pure richiamate le previsioni in tema di soci contenute nella Direttiva Insolvency, insieme alle premesse svolte nei relativi considerando, dei quali particolarmente eloquente è il già citato cons. n. 56,
Ben si spiega perciò che, nell'introdurre nel CCII una espressa ed inedita disciplina della distribuzione secondo regole di “priorità relativa”, quantomeno con riferimento al concordato preventivo in continuità aziendale, nell’ultima fase di gestazione della riforma prima della sua entrata in vigore, con il decreto n. 83/2022, siano state con lo stesso strumento inserite all’art. 120 quater CCII apposite previsioni – all’interno della nuova disciplina “Degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società” (artt. da 120 bis a 120 quinquies), con la quale si è in parte colmato un singolare vuoto della previgente normativa quanto specificamente alla ristrutturazione delle società [53] – circa possibili attribuzioni ai soci del “valore risultante dalla ristrutturazione” nel concordato preventivo [54], e segnatamente, nel solo concordato preventivo in continuità aziendale (come per la RPR che solo per questo – si è detto prima – è ora prevista), come evidenzia il riferimento al valore appunto “risultante dalla ristrutturazione”, generato cioè dalle attività previste dal piano anziché preesistente nel patrimonio del debitore, come nel modello liquidatorio [55]; e come confermato dall’ultimo comma dell’art. 120 quater, che estende le disposizioni dello stesso articolo “in quanto compatibili, all'omologazione del concordato in continuità aziendale presentato dagli imprenditori individuali o collettivi diversi dalle società e dai professionisti”.
In particolare, il comma 1 dell’art. 120 quater del CCII contempla l’ipotesi in cui il piano preveda che il suddetto valore risultante dalla ristrutturazione “sia riservato anche ai soci anteriori alla presentazione della domanda”, per stabilire le condizioni alle quali in detta ipotesi il piano può essere omologato, “fermo quanto previsto dall’art. 112”, nel caso di dissenso di una o più classi di creditori.
Prima di ogni altra considerazione, serve ricordare che, ai sensi del comma 2 dello stesso art. 120 quater, per “valore riservato ai soci” deve intendersi “il valore effettivo, conseguente all'omologazione della proposta, delle loro partecipazioni e degli strumenti che attribuiscono il diritto di acquisirle”.
Le “attribuzioni” di cui qui si parla [56], in tal senso, attengono alla possibilità per i soci di “mantenere interessi” [57] nella società quale risulterà all’esito della ristrutturazione (il valore “conseguente alla omologazione della proposta”) in base alla conservazione o al riacquisto di partecipazioni sociali o di strumenti per acquisirle (opzioni, warrant, etc.) anziché vedere ridotti o azzerati tali interessi in ragione delle perdite che tipicamente connotano la crisi e che normalmente conducono i soci ad essere wiped out dagli esiti della ristrutturazione, non soltanto per via, ad esempio, di riduzione fino all’azzeramento del capitale sociale e nuovo aumento con esclusione del diritto di opzione dei vecchi soci – nel caso di prosecuzione della stessa società pur profondamente ristrutturata –, bensì già semplicemente per il fatto che la società risulti normalmente priva di ogni valore attivo residuo, una volta destinate le risorse disponibili al soddisfacimento dei creditori sì da essere comunque avviata all’estinzione.
Non si tratta invece, parlando di tali “attribuzioni”, del soddisfacimento di possibili (veri e propri) crediti eventualmente spettanti ai soci al di là del rapporto partecipativo in sé – come quelli derivanti da finanziamenti o altri versamenti con obbligo di restituzione (siano o no postergati rispetto agli altri creditori) realizzati in precedenza dai soci medesimi senza alcun nesso con l’attuale processo di riorganizzazione, o dipendenti da altre ragioni di credito derivanti da dividendi in passato deliberati e non distribuiti o ancora da eventuali rapporti negoziali ulteriori fra soci e società – per i quali dovrà invece applicarsi l’ordinaria disciplina del trattamento dei diritti dei creditori [58].
D’altra parte, dal valore come sopra in ipotesi “riservato ai soci”, ai sensi del medesimo art. 120 quater comma 2, deve essere “dedotto il valore da essi eventualmente apportato ai fini della ristrutturazione in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto oppure, per le imprese minori, anche in altra forma”: a rilevare infatti, onde subordinarla alle condizioni di legge, è qui la distribuzione (il più delle volte, rectius, la conservazione) ai soci di un valore che, in alternativa, potrebbe/dovrebbe essere destinato ai creditori, in quanto attinente al patrimonio della società debitrice; dal che appunto l’esigenza di porre condizioni alla omologazione di un piano che preveda una simile diversa destinazione; mentre non rilevano invece gli apporti o versamenti a fondo perduto realizzati dagli stessi soci, in quanto “risorse esterne” al patrimonio del debitore che come tali – secondo il paradigma della new value exception – possono essere distribuite in deroga alle regole ordinarie di cui agli artt. 2740 e 2741 c.c. (cfr. art. 84, comma 3, CCII).
Di un valore siffatto, l’art 120 quater, comma 1, CCII, contempla la possibilità, non anche l’obbligo, che sia “riservato ai soci”, attingendo al “valore risultante della ristrutturazione”.
 Del resto, un obbligo di consentire ai soci di “mantenere gli interessi” nella società potrebbe al più astrattamente configurarsi soltanto allorché le risorse disponibili, “risultanti” appunto “dalla ristrutturazione”, eccedessero quanto necessario all’integrale soddisfacimento dei creditori, in applicazione della APR, ai quali non potrebbe allora destinarsi anche l’eventuale residuo attivo, tenuto conto della condizione espressamente posta dall’art. 112, comma 2, lett. c), secondo cui “nessun creditore riceve più dell’importo del proprio credito”, oltre che della dovuta salvaguardia - anche qui in ossequio alla APR - della pretesa residuale spettante ai soci, la cui ingiustificata pretermissione si risolverebbe in una espropriazione contraria alla tutela costituzionale del diritto di proprietà ed ai principi fondamentali sanciti dalla CEDU [59].
D’altra parte, ove i soci ritenessero che il piano di ristrutturazione sia congegnato in modo da non preservare adeguatamente la loro aspettativa a “mantenere interessi” nella società post reoganization, essi potrebbero tutelarsi, secondo l’art. 120 bis, comma 5, CCII, presentando – purché rappresentanti almeno il dieci per cento del capitale – proposte concorrenti ai sensi dell’art. 90 CCII; e potrebbero altresì – così dispone l’art. 120 quater, comma 3 – “opporsi all’omologazione del concordato al fine di far valere il pregiudizio subito rispetto all’alternativa liquidatoria”, invocare cioè l’effettuazione nei loro confronti del best interest of creditors test.
L’ipotesi tipica considerata dalla disciplina in commento, in effetti, è quella invece in cui il reorganization value non sarebbe di per sé sufficiente all’integrale soddisfacimento dei creditori, in quanto tali sovraordinati nel rango delle loro pretese rispetto ai soci quali residual claimant, ove trovasse applicazione il regime ordinario della priorità assoluta: di qui dunque la prevista applicazione, onde consentire ugualmente una attribuzione di valore anche ai soci, ed al fine di soddisfare le esigenze in tal senso ricavabili dalla Direttiva e dai precedenti interpretativi e normativi prima ricostruiti, di un congegno riconducibile alla RPR, sia pure secondo una peculiare modalità applicativa, come subito si dirà.
Ciò conduce peraltro a precisare ulteriormente – tenuto conto dell’incipit dell’art. 120 quater (“fermo quanto disposto dall’art. 112”) e trattandosi di coinvolgere i soci nella distribuzione di un “valore risultante dalla ristrutturazione”, che altrimenti sarebbe loro precluso secondo l’APR, in quanto insufficiente al pagamento integrale delle classi poziori di interessi (quelle di tutti i creditori, anche del rango più basso comunque superiore a quello residuale dei soci), così da dover fare piuttosto richiamo, a tal fine, al paradigma alternativo della RPR – che l’eventuale “valore riservato ai soci” potrà attingersi dalla sola porzione del “valore risultante dalla ristrutturazione” che corrisponde al “valore eccedente quello di liquidazione”, in conformità al disposto degli artt. 84, comma 6, e 112, comma 2, lett. b), CCII [60].
A proposito di RPR, l’art. 120-quater, comma 1, nello stabilire le condizioni per l’omologazione del concordato preventivo che preveda la suddetta riserva di valore ai soci, in caso di dissenso di una o più classi di creditori, delinea peraltro una versione peculiare – e problematica – della “priorità relativa”, rispetto alla già vista regola sancita dagli arrt. 84 comma 6 e 112, comma 2, lett. b), CCII.
Il testo normativo è piuttosto intricato, sicché conviene scomporlo ed analizzarlo per gradi.
Fin d’ora, si segnala che non basta qui la verifica giudiziale – come in base all’art. 112, comma 2, lett. b) – che “i crediti inclusi nelle classi dissenzienti ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore”.
Nell’ipotesi ora in esame si richiede invero una verifica più complessa.
Qui infatti il concordato può essere omologato “se il trattamento proposto a ciascuna delle classi dissenzienti” (non soltanto è attualmente, secondo il piano proposto, ma per di più) “sarebbe almeno altrettanto favorevole rispetto a quello proposto alle classi del medesimo rango e più favorevole di quello proposto alle classi di rango inferiore, anche se a tali classi”, cioè alle classi di pari rango o di rango inferiore “venisse destinato il valore complessivamente riservato ai soci” (corsivo ns.).
Si richiede così, onde concedere l’omologazione, una complessa attività di simulazione e valutazione, mediante verifica che in un ipotetico scenario alternativo, nel quale il valore ora riservato ai soci venisse invece – in ossequio alla già vista facoltatività dell’attribuzione agli equity holder – trattenuto ai creditori, “risalendo” [61] alle classi (consenzienti) dei creditori che hanno pari rango o rango inferiore rispetto alle classi di creditori dissenzienti, queste ultime (le classi dissenzienti) conserverebbero comunque un trattamento conforme alla RPR, in quanto “almeno altrettanto favorevole” delle classi di pari grado e “più favorevole” delle classi inferiori.
Per superare un simile test, l’ipotesi richiede allora che il valore riservato ai soci sia stato tendenzialmente tratto, o in altre parole messo a disposizione dalle classi (non solo) consenzienti (ma anche) di grado pari o inferiore rispetto ai dissenzienti, attingendo al valore che sarebbe stato loro altrimenti attribuito in caso di indisponibilità a concedere alcunché ai soci.
Un esempio potrà forse chiarire meglio il discorso.
Ipotizziamo – per maggiore semplicità – che vi siano solo classi di creditori di pari rango, alcune delle quali dissenzienti, e sia prevista una attribuzione di valore ai soci.
Per l’omologazione, applicando la verifica anzidetta, sarà sufficiente che, ristornando ipoteticamente e figurativamente il valore riservato ai soci alle classi consenzienti, il trattamento di ciascuna classe dissenziente resti “almeno altrettanto favorevole” rispetto alle altre classi.
Evidentemente, ciò sarà possibile solo se, nell’attuale proposta, le classi dissenzienti risultino invece trattate più favorevolmente delle altre pur se di pari rango, almeno per una differenza pari al valore – ripartito fra le classi – destinato ai soci; soltanto cosi, infatti, facendo per ipotesi risalire detto valore alle consenzienti, potrà ipotizzarsi un trattamento rispetto a queste pur sempre “altrettanto favorevole” delle dissenzienti.
Se, in altre parole, pur reimputando fittiziamente il valore, che il piano destina ai soci, alle classi di pari rango consenzienti, il trattamento delle classi dissenzienti resta almeno “altrettanto favorevole” delle altre, ciò vuol dire che nel piano, senza quella risalita di valore, il trattamento riservato ai dissenzienti è più favorevole rispetto alle classi consenzienti di uguale livello.
Del resto: per un verso, requisito di applicazione della RPR è che i crediti delle classi dissenzienti ricevano un trattamento “almeno pari” a quello delle classi dello stesso grado e “più favorevole rispetto alle classi di grado inferiore (art. 112, comma 2, lett. b), sicché anche rispetto alle classi di uguale rango il trattamento può essere legittimamente più favorevole (la soglia non è un soddisfacimento “pari”, bensì “almeno pari”); per altro verso, una parità di trattamento è imposta solo fra “creditori all’interno di ciascuna classe” (cfr. art. 112, comma ,1, lett. e), non fra classi diverse pur di pari livello, fra le quali è invece possibile – per diffusa opinione – prevedere trattamenti differenziati, ad esempio in ragione della diversità di interessi economici (fornitori, creditori commerciali, creditori non strategici, etc.) [62].
Il che induce ad almeno un duplice ordine di considerazioni
La prima è che si evidenzia nel descritto congegno come l’ipotesi di una attribuzione di valore risultante dalla ristrutturazione ai soci anteriori passi per lo più attraverso un “patto” fra classi di creditori (fin d’ora consenzienti) ed equity holders, capace di prefigurare l’esistenza al momento della votazione di eventuali classi di creditori dissenzienti, al fine di prevedere per queste un trattamento nel piano che le tenga il più possibile indenni dal sacrificio necessario ad includere i soci “in the picture”, onde superare l’omologazione ai sensi dell’art. 120-quater, comma 1, CCII, ed assicurare così il varo della progettata ristrutturazione.
Serve dunque una precisa e accorta strategia di organizzazione dei consensi e di redazione del piano nel senso suddetto.
V’è peraltro da chiedersi perché non possano darsi patti anche più ampi, che ad esempio prevedano che siano le classi senior consenzienti a “staccare” dichiaratamente nel piano, da quanto loro astrattamente potrebbe spettare, secondo le regole di RPR combinate con il BIT, il valore necessario da riservare ai soci; nel quale caso non vi sarebbe ragione della descritta simulazione mediante risalita fittizia del valore alle classi pari o sottordinate alla classe dissenziente, potendosi limitare la verifica al BIT in favore delle classi intermedie e classi junior e, salva questa soglia, alla corretta applicazione della RPR fra queste classi, atteso che quanto loro destinabile non verrebbe intaccato da quanto riservato ai soci.
La seconda considerazione induce a precisare che il criterio distributivo retto dalla RPR, che l’art. 84, comma 6, CCII – nel delineare le “finalità del concordato preventivo e tipologie di piano” – individua come ammissibile, per l’allocazione del “valore eccedente quello di liquidazione” nel concordato in continuità aziendale”, disponendo che “è sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore”, non sembra possa essere inteso come un requisito rigido di ammissibilità della domanda, perché verificare ex ante che i crediti inseriti in ciascuna classe – anziché, ex post, che i crediti inseriti nella classe dissenziente, come invece prevede la Direttiva Insolvency, all’art. 11 comma 1 [63] – ricevano complessivamente “un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado”, significherebbe imporre che classi dello stesso rango ricevano tutte un identico trattamento (altrimenti la verifica non potrebbe avere esito positivo per ciascuna classe, ove per qualcuna si andasse al di là dell’almeno): il che non soltanto è contrario al pacifico assunto – prima ricordato – secondo cui è possibile differenziare il trattamento fra classi di pari livello, ma per di più renderebbe impraticabile l’ipotesi di una attribuzione del valore di ristrutturazione ai soci, applicando l’esaminato meccanismo di cui all’art. 120 quater comma 1, CCII, il quale proprio su tale possibilità di differenziazione poggia la propria realizzabilità, onde consentire il superamento di eventuali dissensi.
Non meno problematica appare la regola disposta dall’ultimo periodo dell’art. 120-quater comma 1, nell'ipotesi in cui “non vi sono classi di creditori di rango pari o inferiore a quella dissenziente”, quando cioè la classe dissenziente sia quella del rango più basso, vale a dire una immediately junior classes, e sia l’unica a trovarsi in tale posizione, in coda alle classi dei creditori e all’immediato ridosso della classe degli equity holders.
In tal caso, “il concordato può essere omologato solo quando il valore destinato al soddisfacimento dei creditori appartenenti alla classe dissenziente è superiore a quello complessivamente riservato ai soci.
Nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 83/2022 si spiega che il criterio generale di applicazione della RPR nella ristrutturazione trasversale, fissato dall’art. 112, comma 2, lett. b), e riedito con le suindicate variazioni dall’art. 120 quater, comma 1, CCII, sarebbe risultato “inapplicabile in caso di dissenso dell’unica classe di creditori collocata al rango immediatamente superiore a quello dei soci”; sicché, “per tale ragione, nell’ultimo periodo del primo comma si prevede che, in questo solo caso, al fine di verificare il rispetto delle suddette regole, il valore assoluto destinato a tale classe debba essere superiore a quello riservato ai soci”.
Qui il confronto non è in termini di “trattamento”, bensì di importo del “valore” attribuito, ed ha luogo fra l’unica ed infima classe di creditori dissenziente e i soci, per questi ultimi con riferimento al valore misurato nei termini del comma 2 (valore delle partecipazioni post ristrutturazione e degli strumenti che danno diritto ad acquisirle, al netto di apporti realizzati a servizio della reorganization, a mezzo di conferimenti e versamenti a fondo perduto).
In questo senso, l’entità del valore complessivamente attribuibile ai soci dipende dall’ammontare, che deve essere comunque “superiore”, riconosciuto all’ultima classe dissenziente in questione, a prescindere da ciò che tale “ammontare” significhi, in termini di “trattamento” della stessa classe.
Se detta classe rappresenta un importo complessivo molto ampio di crediti, vi sarà più margine per “staccare” un importo, purché minore come cifra assoluta, da destinare ai soci sotto forma di partecipazioni/strumenti per acquisirle, con il singolare risvolto per cui, parlandosi di valore assoluto e non di trattamento, purché vi sia la suddetta superiorità di importo complessivo per i creditori rispetto ai soci, i creditori della classe de qua riceveranno complessivamente un maggiore importo, che però rispetto ai loro crediti (in chiave percentuale) potrebbe rappresentare un trattamento di notevole sacrificio, mentre i soci potrebbero ricevere un minore valore assoluto, che però corrisponda ad esempio a riottenere la stessa percentuale di partecipazione nella società ristrutturata, già posseduta prima dell’avvio del concordato.
Se invece la classe in questione riunisce crediti di complessivo minore importo, corrispondentemente minore potrà essere il valore in termini di importo assoluto loro destinabile e ancora minore allora il valore assoluto attribuibile ai soci, dunque più ristretti saranno i margini di manovra, ma comunque senza che ciò rispecchi necessariamente, neppure qui, un “trattamento” migliore per i creditori dell’ultima classe dissenziente, rispetto al “trattamento” riservato ai soci, dal punto di vista della possibilità offerta a costoro di “mantenere interessi” – non per forza in termini di controvalore monetario, bensì anche e soprattutto di posizioni, di poteri e di equilibri reciproci – nella società ristrutturata.
Altri ha osservato che “si tratta di regola dalla razionalità sfuggente” [64], ed in effetti il meccanismo non è di agevole comprensione.
A rinvenirne la logica può però aiutare forse la considerazione, secondo cui la classe dissenziente di cui qui si parla che non ha altre classi di pari rango o inferiori, trovandosi alla base della waterfall, non è d’altra parte l’unica – e ciò per definizione, essendo le classi necessariamente più d’una, ed essendovi dunque qui una o più classi di rango superiore –; essa è bensì l’ultima nella gerarchia dei creditori ma, in una più ampia prospettiva degli stakeholder che includa i soci, si colloca a ben vedere in una posizione “intermedia”, fra classi superiori di creditori ed equity holder.
In tal senso, l’ipotesi tipica sottesa alla disciplina in questione sembra quella in cui i creditori delle classi di rango superiore si accordino con i soci al fine di consentire loro di “mantenere interessi” nella società ristrutturata, per i vantaggi che il loro coinvolgimento nella reorganization può comportare e di cui si è già detto.
I creditori dissenzienti del rango più basso – ma intermedi fra classi creditorie superiori da un lato e soci dall’altro – non dovrebbero potersi opporre ad una tale intesa, a condizione che sia loro comunque assicurato il valore realizzabile in caso di liquidazione giudiziale, dagli stessi peraltro invocabile attivando il best interest of creditor test, ai sensi dell’art. 112, comma 3, CCII (test attivabile mediante opposizione proposta da ciascun creditore dissenziente, anche se di classe consenziente, a differenza di quanto previsto, per il concordato liquidatorio, dal comma 5 dello stesso art. 112, che ammette a contestare la convenienza della proposta solo il “creditore dissenziente appartenente a una classe dissenziente”): un valore realizzabile in caso di liquidazione che, applicandosi in tale scenario la regola di priorità assoluta, potrebbe anche non spettare affatto – poiché pari a zero – ai creditori della classe dell’ultima fila in questione, sicché vana sarebbe la loro opposizione stante l’esito negativo del test del “miglior soddisfacimento dei creditori”.
Così ragionando, i creditori delle classi sovraordinate potrebbero dunque concordare ex ante con i gestori della società e con i soci anteriori di questa il varo di un piano di concordato in continuità, che: per un verso accordi ai creditori (né potrebbe essere altrimenti) dell’eventuale unica classe del rango più basso il solo trattamento loro riservato dal best interest of creditor test, eventualmente pari a zero nel caso in cui tali creditori siano out of the money in ragione dell’incapienza, in base all’APR applicabile sul valore di liquidazione; e per altro verso riservi delle attribuzioni ai soci anteriori, recuperandoli in the picture, pur allorquando costoro siano – rispetto all’ultima classe dei creditori – a maggior ragione out of the money, stante la residualità delle loro pretese con perdita di ogni valore nell’alternativa liquidatoria.
Sennonché un simile piano, pur conforme al binomio APR/BIT – rispetto al quale parrebbe che i creditori di infima classe non avrebbero nulla di cui legittimamente dolersi, purché resti salvaguardato l’eventuale valore loro spettante in ipotesi liquidatoria – non sarebbe – questo è del resto l’insegnamento che proviene dall’esperienza statunitense della reorganization, a partire dalla decisione della Corte Suprema Northern Pacific Railway Co. v. Boyd del 1913 – né fair equitable.
Vi è qui cioè un problema di correttezza (fairness), in base al quale non sarebbe fair da un lato trattare i creditori di ultimo rango in base allo stretto minimo dagli stessi esigibile, al limite pari a zero con conseguente (solo formalmente legittima) esclusione da ogni distribuzione e dall’altro lato concedere ai soci un valore, in termini di mantenimento dei loro interessi, che agli stessi non spetterebbe affatto – quali residual claimant – ove fossero loro applicati gli stessi criteri usati per gli ultimi dei creditori.
Ecco allora che può forse spiegarsi quale regola di correttezza – nel senso della fairness - della distribuzione la disposizione in esame per cui,  affinché il piano possa legittimamente riservare una porzione del reorganization value ai soci anteriori, esso debba al contempo “staccare” un valore/importo anche in favore dei creditori dell’ultima fila il quale, fermo il quantum loro eventualmente spettante nell’alternativa liquidatoria, sia di ammontare complessivo comunque superiore (pur se di poco) al valore attribuito ai soci, onde almeno in questa forma rispecchiare la priorità (ancorché solo relativa, invece che assoluta) comunque da riconoscere ai creditori rispetto ai soci, ed impedire che i creditori in posizione “intermedia” fra classi superiori e soci, poiché all’ultima fila delle classi creditorie, possano essere semplicemente “scavalcati” da accordi fra le une e gli altri, che riservino ai soli creditori dell’infima classe un trattamento strettamente limitato a quanto loro spetta alla stregua del BIT e disattenda invece tale criterio per i soci, trattandoli più generosamente.
E, nella stessa ottica, trova ragione allora anche un confronto fra valori assoluti, anziché fra trattamenti riservati, onde rendere omogeneo il confronto rispetto ai soci per i quali il valore riservato è unicamente misurabile in termini di controvalore degli interessi mantenuti o riassegnati nella società esito della ristrutturazione.
10 . Il voto dei soci
Il tema delle attribuzioni ai soci conduce infine a considerare quello della loro ammissione al voto, ai sensi dell’art. 2, par. 1, n. 2, della Direttiva, secondo cui i detentori di strumenti di capitale, in quanto soggetti “sui cui rispettivi [crediti o] interessi incide direttamente il piano di ristrutturazione”, sono da includere fra le “parti interessate” solo “se applicabile ai sensi del diritto nazionale”.
In tal senso, il disposto dell’art. 9, comma 2, della stessa Direttiva, secondo cui “Gli Stati membri provvedono affinché le parti interessate abbiano diritto di voto sull'adozione di un piano di ristrutturazione”, si applica ai soci sulla base di una opzione (“se applicabile”) dei legislatori nazionali.
Il CCII adotta al riguardo una scelta articolata.
Ai sensi dell’art. 120-ter, comma 1, “Lo strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza può prevedere la formazione di una classe di soci o di più classi se esistono soci ai quali lo statuto, anche a seguito delle modifiche previste dal piano, riconosce diritti diversi”: l’attribuzione del voto ai soci è cioè facoltativa, ed ove concessa si traduce nella inclusione dei soci in una apposita classe o in più classi in caso di diritti diversi [65].
La regola generale della facoltatività asseconda scelte flessibili dei redattori del piano di concordato, che potrebbero optare – ove non ricorrano le ipotesi di cui al comma 2, di cui subito si dirà – per non ammettere i soci al voto, in particolare quando possa temersi il dissenso della classe o classi relative, con possibili effetti sulle condizioni per l’omologazione del concordato in continuità aziendale, ai sensi dell’art. 112 comma 2, CCII [66], ed in linea con il disposto dell’art. 12, comma 2, Direttiva, circa la legittima adozione di misure idonee a scongiurare l’eventuale ostruzionismo dei soci [67].
Secondo il comma 2 dello stesso art. 120-ter CCII, la formazione delle classi a sensi dell’anzidetto comma 1 è invece obbligatoria in due ipotesi:
- “se il piano prevede modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci;
- e, in ogni caso, per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio”.
Tralasciando qui la seconda ipotesi, per quanto adesso rileva si tratta di comprendere se, ed eventualmente a quali condizioni, la previsione nel piano della possibile riserva di valore ai soci, nel senso indicato dall’art. 120-quater, comma 2, CCII, a mezzo “delle loro partecipazioni e degli strumenti che attribuiscono il diritto di acquisirle”, possa integrare l’ipotesi in cui “il piano prevede modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci”, e rendere obbligatoria l’ammissione dei soci in questione al voto.
Mi limiterò qui a due considerazioni.
Per un verso, la citata previsione dell’art. 120-ter, comma 2, CCII, è piuttosto problematica, riferendosi alla figura delle modificazioni dei “diritti di partecipazione”, che già tante incertezze ha generato quale oggetto di una delle ipotesi inderogabili di recesso nelle s.p.a., ai sensi dell’art. 2437, comma 1, lett, g), c.c. [68], e che nell’art. 120-ter, comma 2, CCII, non è neppure disgiunta (come invece nella citata disposizione codicistica sul recesso dell’azionista) dalle modificazioni dei diritti di voto, sì da assumere una portata particolarmente ampia, inclusiva sia dei profili amministrativi/corporativi che di quelli patrimoniali della partecipazione sociale.
Nell’art. 120-bis, comma 2, CCII, si precisa che “il piano può prevedere qualsiasi modificazione dello statuto della società debitrice, ivi inclusi aumenti e riduzioni di capitale anche con limitazione o esclusione del diritto di opzione e altre modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci, nonché fusioni, scissioni e trasformazioni” (corsivo ns.). Quindi le “modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione” consistono in modificazioni ulteriori rispetto agli interventi sul capitale e alle operazioni c.d. straordinarie.
D’altra parte, l’accento posto dalla norma sull’avverbio “direttamente” sembra indurre ad una lettura restrittiva della previsione, delimitata alle ipotesi di modificazioni dirette e specifiche oggetto di interventi statutari, appositamente rivolti ad incidere sul contenuto o sulla stessa sussistenza delle partecipazioni sociali, come appunto nel caso di riduzioni – fino all’azzeramento – e successivi riaumenti del capitale sociale con esclusione del diritto di opzione dei preesistenti soci (ma l’art. 120-bis, comma 2, CCII, come appena notato, per un verso tiene le due ipotesi distinte: “aumenti e riduzioni di capitale […] e altre modificazioni”, per altro verso sembra così accomunarle nel condiviso effetto di incidere “direttamente sui diritti di partecipazione”), non anche, ad esempio, ai casi in cui l’impatto sulle posizioni dei soci sia effetto naturale di interventi di modifica statutaria non specificamente e direttamente rivolti alla modificazione dei diritti dei soci anteriori, quali la riduzione del capitale che si limiti all’obiettiva registrazione delle perdite rilevate, con eventuale successivo aumento ma non precluso alla sottoscrizione dei soci.
In ogni caso, anche con riferimento ai casi di modificazioni dirette e specifiche, sembra peraltro da chiedersi come debba essere considerata la posizione dei soci che, pur vedendo profondamente incisa la propria partecipazione sociale nella sua identità e consistenza qual era prima dell’avvio del procedimento di ristrutturazione, si trovino però destinatari di un’attribuzione di valore che, nei termini prima richiamati, comporti per gli stessi soci il “mantenere interessi” nella società ristrutturata per valori complessivi – al netto degli apporti dagli stessi soci realizzati, secondo la regola ex art. 120-quater, comma 2, CCII – e/o con posizioni in chiave di poteri, percentuali di partecipazione ed equilibri reciproci, che possano intendersi riprodurre l’assetto ex ante, e con ciò equivalere ad un mantenimento integrale dei propri interessi nell’impresa, ancorché sotto una nuova veste formale e nella rinnovata cornice della società post ristrutturazione.
I soci che versino in situazione siffatta, prevista dal piano, devono pur sempre considerarsi oggetto di “modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione”? Sorge il dubbio che più appropriato sia invece considerarli parti unaffected o unimpaired; ed applicare allora la regola posta dalla Direttiva, all’art. 9, par. 2, comma 2 – a garanzia di una genuina espressione del consenso nell’approvazione del concordato, non inquinata dal voto di soggetti univocamente interessati ad approvarlo – secondo cui “Le parti non interessate da un piano di ristrutturazione non hanno diritto di voto sull'adozione del piano”.
Una regola che però – al di là dell’esclusione dal voto dei creditori privilegiati da soddisfare integralmente, a norma dell’art. 109, comma 3, CCII – non sembra recepita con sufficiente chiarezza dal nuovo Codice italiano, che anche sotto questo profilo si dimostra un cantiere in corso, un territorio aperto all’approfondimento e ad opportune evoluzioni e integrazioni.

Note:

[1] 
Cfr. in argomento, fra gli altri, G. D’Attorre, Le regole di distribuzione del valore, in Fallimento, 2022, p. 1223 ss.; Id., La distribuzione del patrimonio del debitore tra absolute priority rule e relative prority rule, ivi, 2020, p. 1072; S. Leuzzi, Il volto nuovo del concordato preventivo in continuità aziendale, in Dirittodellacrisi.it, 22 settembre 2022, p. 18 ss.; A. Pezzano, M. Ratti, Le regole di distribuzione, in Dirittodellacrisi.it, 6 settembre 2022; G.P. Macagno, La distribuzione di valore tra regole di priorità assoluta e relativa. Il plusvalore da continuità, in Dirittodellacrisi.it, 6 aprile 2022; D. Galletti, Regole di priorità e distribuzione del plusvalore concordatario: due passi indietro ed un'occasione importante perduta, in Il Fallimentarista, 6 aprile 2022; G. Lener, Considerazioni intorno al plusvalore da continuità e alla “distribuzione” del patrimonio (tra regole di priorità assoluta e regole di priorità relativa), in Dirittodellacrisi.it, 25 febbraio 2022; S. Pacchi, Par condicio e relative priority rule. Molto da tempo è mutato nella disciplina della crisi d’impresa, in Dirittodellacrisi.it, 26 gennaio 2022; G. Ballerini, Art. 160, comma 2°, L. fall. (art. 85 c.c.i.i.), surplus concordatario e soddisfazione dei creditori privilegiati nel concordato preventivo, in Nuove leggi civ.com., 2021, 625; Id., La distribuzione del (plus)valore ricavabile dal piano di ristrutturazione nella direttiva (ue) 2019/1023 e l’alternativa fra absolute priority rule e relative priority rule in Riv.dir.comm. 2021, I, p. 367 ss.
[2] 
Cfr, già con riferimento all’art 182 septies L. fall., G. Terranova, Concordati senza consenso, in Id., Le procedure concorsuali, Torino, Giappichelli, 2019, p. 498 s., parlando con benevola ironia di “contratti in danno di terzi”, ed evidenziando però come in tali ipotesi sia piuttosto “la legge del concorso a giustificare i sacrifici imposti ai soggetti rimasti estranei all’accordo” (p. 499).
Sulla regola generale di relatività degli effetti del contratto, ai sensi dell’art. 1372, ult. comma, c.c., cfr. per una nitida messa a punto R(osalba) Alessi, La disciplina generale del contratto, 3a ed., Torino, Giappichelli, 2019, pp. 199 e 477 ss.; e sulla peculiare ipotesi civilistica del c.d. “contratto in danno del terzo”, cfr. di nuovo R. Alessi, op.cit., p. 482.
[3] 
Cfr. al riguardo N. Abriani, Gli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa, in Dirittodellacrisi.it, 13 maggio 2021; e G.B. Nardecchia, Il novellato art. 182 septies L. fall., in Fallimento, 2021, p. 1634 ss.
[4] 
Cfr. sul tema S. Ambrosini, Piano di ristrutturazione omologato (parte prima): presupposti, requisiti, ambito di applicazione, gestione dell’impresa. e una (non lieve) criticità, in Ristrutt.aziend., 19 agosto 2022; L. Panzani, Il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, ivi, 26 agosto 2022.
[5] 
Cfr. D. Vattermoli, Concordato con continuità aziendale, Absolute priority rule e new value exception, in Riv. dir. comm., 2014, II, 342 ss.; Cass., 26 maggio 2022, n. 17155, in Il fallimentarista.it, 5 ottobre 2022; Cass. 8 giugno 2020, n. 10884, in Fallimento, 2020, 1071; Cass. 8 giugno 2012, n. 9373. Per una analisi dei più recenti orientamenti della giurisprudenza in materia cfr. G.P. Macagno, op.cit., p. 11 ss.
[6] 
Vi è qui l’eco della new value exception di diritto statunitense, su cui si tornerà.
[7] 
Cfr. S. Leuzzi, op.cit., p. 2 ss.
[8] 
Come del resto già rispetto al previgente art. 160, comma 2, L. fall., e cfr. sul punto G.P. Macagno, op.cit., p. 7 e 17.
[9] 
Cfr. la “Relazione illustrativa” allo “Schema di decreto legislativo recante modifiche al codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, in attuazione della Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019”, p. 26.
[10] 
È questa la regola, fin qui dai più ritenuta inderogabile, e come necessariamente da trarsi – con particolare riguardo al concordato preventivo – dalle previsioni dell’art. 160, comma 2, L. fall., in base alla quale creditori di rango inferiore non possono essere soddisfatti prima che lo siano, per l'intero, i creditori di rango poziore: in giurisprudenza cfr., fra le più recenti, Cass., 8 giugno 2020, n. 10884.
[11] 
Un primo esempio di RPR “all’italiana” sarebbe già stato previsto dall’art. 182 ter, comma 1, L. fall. (con riguardo al trattamento dei crediti tributari e contributivi privilegiati, per i quali “la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie non possono essere inferiori o meno vantaggiosi rispetto a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica e interessi economici omogenei a quelli delle agenzie e degli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie”) secondo G. Lener, Considerazioni intorno al plusvalore da continuità e alla “distribuzione” del patrimonio, cit., 9; e cfr. in argomento anche G. Andreani, La transazione fiscale deroga alla regola della priorità assoluta, in www.ilcaso.it, 14 marzo 2021. Espressamente negli stessi termini cfr. Cass., 26 maggio 2022, n. 17155, ove l’affermazione “che ai crediti tributari e contributivi può essere applicata, in luogo della c.d. absolute priority rule, la c.d. relative priority rule”, nel senso “che il trattamento dei crediti prelatizi di natura tributaria e contributiva previsto dal vigente L. Fall., art. 182 ter, comma 1, secondo periodo, contempla la possibilità negata invece ai crediti di altra natura, muniti di privilegio, pegno o ipoteca, dalla L. Fall., art. 160, comma 2, secondo periodo - che essi siano soddisfatti parzialmente, purché in misura superiore o anche solo pari a quella riservata ai crediti prelatizi di grado inferiore”, “ferma in entrambi i casi la condizione preclusiva posta dal primo periodo delle medesime disposizioni, che come visto individua il limite minimo di soddisfacimento dei creditori prelatizi nella misura che essi ritrarrebbero dalla liquidazione, a valori di mercato, dei beni gravati da privilegio, pegno o ipoteca, sulla base di apposita attestazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'art. 67, comma 3, lett. d), L. Fall.”
Per una anticipata applicazione delle regole della Direttiva in tema di RPR, ancor prima della scadenza del termine di recepimento, in virtù della ritenuta necessità di interpretazione conforme al diritto euronitario del diritto nazionale, segnatamente dell’art. 182 bis, comma 4, L. fall. (come modificato dall’art. 3, comma 1 bis, lett. b, D.L. n. 125/2020, convertito, con modificazioni, dalla l. 27 novembre 2020, n. 159), negando l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti che, senza adesione dell’amministrazione finanziaria, prevedeva che il credito privilegiato di quest’ultima ricevesse un trattamento inferiore, in termini sia di percentuale che di tempi di pagamento, rispetto al credito di rango inferiore dei creditori chirografari estranei all’accordo, cfr. Trib. Trani, 21 dicembre 2021, in Dirittodellacrisi.it.
[12] 
Cfr. U.S. Supreme Court, Czyzewsky v. Jevic Holding Corp., 580 U.S., 137 S., Ct. 973, 979 (2017).
[13] 
Anche se formalizzato decenni più tardi come vera e propria doctrine, cfr. D. Baird, Priority Matters: Absolute Priority, Relative Priority, and the Costs of Bankruptcy, in 165 U. Penn. L. Rev. (2017), pp. 785, 786.
[14] 
D.G. Baird, The Elements of Bankruptcy, rev.ed., The Foundation Press, 1993, p. 74 ss., 243. Sulle origini della APR nel diritto statunitense cfr. anche, fra gli altri, D.G. Baird, Present at the Creation: the Sec and the Origins of the Absolute Priority Rule, in 18 Am. Bankr. L. Rev. (2010), p. 591 ss.; A. Ayer, Rethinking Absolute Priority after Ahlers, in 87 Mich. L. Rev. (1989), p. 963 ss.
[15] 
Cfr. Northern Pacific Railway Company v. Boyd, 228 U.S. 482, 502 (1913).
[16] 
D. Baird, The Elements of Bankruptcy, rev.ed., The Foundation Press, 1993, 256.
[17] 
Nella dottrina italiana, cfr. in argomento D. Vattermoli, Concordato con continuità aziendale, Absolute priority rule e new value exception, cit., p. 342 ss.; Id., La posizione dei soci nelle ristrutturazioni. Dal principio di neutralità organizzativa alla residual owner doctrine?, in Riv.soc., 2018, p. 867, testo e nt. 31.
[18] 
D. Baird, Priority Matters, cit., p. 828.
[19] 
Cfr. S.J. Lubben, The Overstated Absolute Priority Rule, 21 Fordham J. Corp. & Fin. L. (2016), p. 581.
[20] 
D. Baird, Priority Matters, cit., p. 788; Id., The Elements of Bankruptcy, cit., p. 242 s.; D. Baird-D.S. Bernstein, Absolute Priority, Valuation Uncertainty, and the Reorganization Bargain, in 115 Yale L. J. (2006), p. 1930 ss.
[21] 
Cfr. D. Vattermoli, La posizione dei soci nelle ristrutturazioni. Dal principio di neutralità organizzativa alla residual owner doctrine?, cit., p. 869 s.
[22] 
Cfr. D.G. Baird, The Elements of Bankruptcy, cit., p. 74. Nella dottrina italiana, cfr. G. Ferri jr., Ristrutturazioni societarie e competenze organizzative, in Riv.soc., 2019, p. 235, ove l’A. sottolinea efficacemente la propensione razionale dei soci ad ostacolare qualsiasi tentativo di riorganizzazione del capitale proprio, a seconda dei casi negando il proprio consenso individuale o rifiutandosi di approvare le deliberazioni a tal fine necessarie”, assumendo atteggiamenti “di ostruzionismo, di ‘resistenza passiva’ (c.d. hold-out)”, ogniqualvolta solo contando sul possibile residuo attivo della liquidazione “i soci sono sicuri di conservare un valore, per quanto eventuale, che invece attraverso la riorganizzazione del capitale proprio potrebbero perdere”.
[23] 
Cfr. J.C.Bonbright-M.M.Bergerman, Two Rival Theories of Priority Rights of Security Holders in a Corporate Reorganization, in 28 Columbia Law Review (1928), p. 127 ss.
[24] 
Cfr. op.cit., p. 130.
[25] 
Op.cit., p. 132.
[26] 
A.J. Casey, The Creditor’s Bargain and Option Preservation Priority in Chapter 11, in 78 The University of Chicago Law Review (2011), pp. 759, 789.
[27] 
Cfr. A.J. Casey, op.cit., p. 764.
[28] 
V. op.cit., p. 765, 789 ss.
[29] 
D. Baird, Priority Matters, cit., pp. 785, 789, 812 ss.
[30] 
Cfr. American Bankruptcy Institute - Commission to study the reform of Chapter 11, 2012-2014, Final Report and Recommendations, 2014, p. 208 ss.
[31] 
Cfr. ivi, p. 208.
[32] 
Consultabile in https://www.europeanlawinstitute.eu
[33] 
Cfr. ELI Report, cit., p. 308.
[34] 
Cfr. ELI Report, cit., § 686(2), p. 336. Tale proposta dell’Eli Report ha trovato eco all’interno del cons. n. 58 della Direttiva 2019/1023, cfr. infra, nt. 48.
[35] 
Cfr. L. Stanghellini-R. Mokal-C.G. Paulus-I. Tirado (a cura di), Best practices in European restructuring. Contractualised distress resolution in the shadow of the law, Milano, Wolters Kluwer-Cedam, 2018. 
[36] 
Vista come “a key attribute of the processes for formulating, proposing, voting on, confirming, and implementing plans”: cfr. op.cit., p. 31.
[37] 
Cfr. op.cit., p. 46.
[38] 
Sulla quale il Final Report, cit., p. 46, richiama S. Madaus, Leaving the Shadows of US Bankruptcy Law: A Proposal to Divide the Realms of Insolvency and Restructuring Law, in Eur. Bus. Org. Law Rev. (2018), con particolare riferimento al paragrafo 5.2 dello scritto. È la parte di tale scritto (S. Madaus, op.cit. p. 639 ss.) nel quale l’Autore, nel proporre una new taxonomy (p. 630), che riserva agli strumenti di ristrutturazione un approccio rigorosamente contractual, da tenere nettamente distinto dalle regole che governano le procedure di insolvenza, addita quale preferibile sistema di distribuzione del valore nella ristrutturazione, anziché la “absolute priority rule of US bankruptcy”, quello che più flessibilmente “would test the contractual agreements and expectations of all stakeholders outside of insolvency directly and allow for a fair and differentiated treatment depending on the circumstances of the case”.
[39] 
Cfr. § 1129 (a) (10) U.S. B.C.: “(10) If a class of claims is impaired under the plan, at least one class of claims that is impaired under the plan has accepted the plan, determined without including any acceptance of the plan by any insider”. La previsione è così giustificata da D.G. Baird, The Elements of Bankruptcy, cit., p. 242: “A Chapter 11 plan is supposed to be a product of negotiations among the interests parties. To show that there were negotiations and at least some give and take, you have to show the approval of one class that has the opportunity to reject”.
[40] 
Cfr. S. Madaus, Is the Relative Priority Rule right for your jurisdiction? A simple guide to RPR, 18 gennaio 2020, in SSRN.com, p. 3: “the ‘best-interest-of-creditors test’ guarantees the realisable value of existing claims and equity rights of dissenting stakeholders against coercive infringements under a restructuring plan”. 
[41] 
Cfr. L. Stanghellini-R. Mokal-C.G. Paulus-I. Tirado, op.cit., p. 44-45.
[42] 
Cfr. R.J. de Weijs-A.L. Jonkers-M. Malakotipour, The Imminent Distortion Of European Insolvency Law: How the European Union Erodes the Basic Fabric Of Private Law by Allowing ‘Relative Priority’ (Rpr), in https://papers.ssrn.com, p. 11, ove si legge che “The rule seems to come from L. Stanghellini, R. Mokal, C.G. Paulus, I. Tirado (edited by), Best practices in European restructuring. Contractualised distress resolution in the shadow of the law, Wolters Kluwer 2018, with reference to Madaus”. Nello stesso scritto (pubblicato in forma più ridotta anche in https://europeanlawblog.eu), p. 9 ss., gli Autori (studiosi dell’Università di Amsterdam) sottopongono a vivace critica – a fronte delle ultime modifiche della proposta di Direttiva Insolvency, prima della sua definitiva approvazione – “the last-minute move to EU RPR”. E sempre i medesimi Autori sono i firmatari di una lettera datata 20 marzo 2019 al Parlamento europeo, nella quale le critiche anzidette sono più sinteticamente espresse, individuando nella RPR EU Style pericoli di abuso delle procedure di riorganizzazione, in specie da parte dei soci, per un verso indotti a orchestrare procedure opportunistiche al solo fine di ritenere valore dell’impresa a spese dei creditori, ed in particolare dei trade creditors nelle SME, e per altro verso non più dissuasi dall’assumere rischi eccessivi, venuto meno il pericolo di essere tagliati fuori per primi dalla distribuzione dei valori residui dell’impresa. Alla citata lettera è unita una nota, datata 7 marzo 2019, con cui D.G.Baird sottolinea negativamente le differenze fra la RPR EU Style e la propria proposta di RPR – della quale si è prima detto nel testo – fondata sul riconoscimento di una call option agli junior stakeholders.
Il Co.Di.RE. Final Report è pure richiamato, per criticarne accesamente gli assunti, da J.Seymour-S.L.Schwarcz, Corporate Restructuring under Relative and Absolute Priority Default Rules: A Comparative Assessment, in University of Illinois Law Review, 2021, No. 1, p. 7, testo e nt. 38-39. 
[43] 
The version of the RPR recommended by the Council appears to derive from CoDiRe recommendations”: così R. Mokal-I. Tirado, Has Newton had his day? Relativity and realism in European restructuring, in Butterworths Journal of International Banking and Financial Law, 2019, p. 235; L. Stanghellini, Verso uno statuto dei diritti dei soci di società in crisi, in Riv.dir.soc., 2020, p. 306. Il collegamento fra le opzioni della Direttiva in tema di RPR e le proposte del progetto Co.Di.RE. è segnalato anche da I. Donati, Crisi d’impresa e diritto di proprietà. Dalla responsabilità patrimoniale all’assenza di pregiudizio, in Riv.soc., 2020, p. 173, nt. 16.
[44] 
Sul che cfr. S. Madaus, Keine Reorganisation ohne die Gesellschafter, in ZGR 2011, 749. 
[45] 
 Del pari significativo, nella chiave di una valorizzazione del ruolo dei soci, specie nella ristrutturazione di PMI, il Cons. 59, secondo il quale “Ai fini della sua attuazione, il piano di ristrutturazione dovrebbe contemplare la possibilità che i detentori di strumenti di capitale di PMI forniscano assistenza alla ristrutturazione in forma non monetaria, attingendo ad esempio alla loro esperienza, reputazione o contatti commerciali”. 
[46] 
In conformità all’ultimo periodo del succitato cons. 56. 
[47] 
Cfr. art. 2, n. 6, Direttiva 2019/1023: “«verifica del migliore soddisfacimento dei creditori»: la verifica che stabilisce che nessun creditore dissenziente uscirà dal piano di ristrutturazione svantaggiato rispetto a come uscirebbe in caso di liquidazione se fosse applicato il normale grado di priorità di liquidazione a norma del diritto nazionale, sia essa una liquidazione per settori o una vendita dell'impresa in regime di continuità aziendale, oppure nel caso del migliore scenario alternativo possibile se il piano di ristrutturazione non fosse omologato”; che “oppure” denoti qui un’alternativa emerge dal Cons. 52, secondo periodo: “Gli Stati membri dovrebbero poter scegliere fra queste soglie al momento di attuare la verifica del migliore soddisfacimento dei creditori nel diritto nazionale” (così anche I.Donati, op.cit., p. 190, testo e nt. 54.
Cfr. S.Madaus, Is the Relative Priority Rule right for your jurisdiction?, cit., p. 2: “The Directive provides flexibility here”
[48] 
Nel Cons. 58 si osserva d’altra parte che “I detentori di strumenti di capitale delle PMI che non sono meri investitori bensì proprietari dell'impresa e che contribuiscono all'impresa in altri modi, ad esempio con competenze in materia di gestione, potrebbero non essere incentivati a ristrutturare a tali condizioni”: dal che il rilievo secondo cui “il meccanismo di ristrutturazione trasversale dei debiti dovrebbe rimanere facoltativo per i debitori che sono PMI” (Cons. 58, ult.periodo), cioè – sembra – dovrebbe essere comunque previsto come opzione dagli ordinamenti nazionali, così da consentire di tenere gli equity holder inclusi nella distribuzione del reorganization value (in coerenza con la riforma U.S., che come ricordato ha previsto la disapplicazione dell’APR alle SME.
La Direttiva riprende qui quasi testualmente le già richiamate considerazioni svolte nello ELI Report, cit., § 686(2), p. 336. 
[49] 
Per ipotesi anticipatorie delle soluzioni introdotte dalla disciplina sopracitata nel testo, cfr. già G. Lener, Considerazioni intorno al plusvalore da continuità e alla “distribuzione” del patrimonio, cit., p. 23 ss. 
[50] 
Tale sfida è resa più acuta dall’assenza dal difetto allo stato di più puntuali indicazioni normative oltre che di una esperienza applicativa in ordine al nuovo paradigma distributivo, col rischio che emerga una percezione di imprevedibilità e iniquità del trattamento risultante dal ricorso ai nuovi meccanismi a efficacia estesa. Una percezione efficacemente segnalata da G. Terranova, Prime impressioni sull’articolato “Rordorf”, in Id., Le procedure concorsuali, Torino, Giappichelli, 2019, p. 50: “Il problema tuttavia esiste, e dipende dall’aver ritenuto che, per mettere a tacere i creditori, sia sufficiente attribuire loro delle somme nel complesso equivalenti al valore di liquidazione del patrimonio responsabile, trascurando il fatto che il debitore, in questo modo, finisce per arricchirsi alle loro spalle, giacché conserva l’intero valore d’uso (quantificabile sulla base dei costi di ripristino) dei beni con funzione produttiva. La differenza tra i due anzidetti valori può essere notevole […] e non si vede per quale motivo debba restare tutta al debitore, invece di essere distribuita, almeno in parte, ai creditori”. 
[51] 
Di una possibile deroga all’APR con riguardo al surplus di continuità nel concordato preventivo, con destinazione di una parte delle corrispondenti utilità al debitore/ai soci, si era parlato peraltro già sotto la legge fallimentare: cfr., fra le altre, Tribunale di Firenze 2 novembre 2016, in Fallimento, 2017, p. 313, con nota adesiva di G. D’Attorre, Le utilità conseguite con l’esecuzione del concordato in continuità spettano solo ai creditori o anche al debitore?, ivi a p. 316 ss.; App. Venezia, 19 luglio 2019, in www.unijuris.it, secondo cui, ai fini della verifica del trattamento non deteriore dei creditori privilegiati in ipotesi di loro eventuale falcidia, deve farsi riferimento al patrimonio esistente nel momento in cui viene presentata la domanda di concordato, senza considerare i flussi futuri derivanti dalla continuità ex art. 186 bis L. fall., come tali in tale ipotesi legittimamente destinabili allora anche al debitore/ai soci; App. Milano, 9 giugno 2022, in Ristrutt.aziend., la quale reputa “di dover aderire alla tesi che, nei concordati con continuità aziendale, limita l’operatività delle regole distributive della absolute priority rule al solo patrimonio esistente al momento dell’avvio del procedimento”, “che è quello suscettibile di essere destinato al soddisfacimento dei creditori anche in mancanza di collaborazione del debitore”, così da ritenere ammissibile che il c.d. surplus concordatario – “ovvero la differenza tra il valore liquidatorio del patrimonio al momento dell’apertura della procedura ed il valore dell’azienda in continuità come indicato nel piano”,  differenza da tenere comunque ben distinta da ogni “risorsa esogena assimilabile alla finanza esterna” – sia distribuito in percentuali via via decrescenti in base al grado di privilegio, sì che, in concreto, non risultano disparità tra creditori del medesimo grado né creditori cui sia destinato un trattamento più favorevole rispetto a quello di creditori di rango inferiore”; “con la conseguenza ulteriore che, una volta che il concordato sia stato eseguito ed i creditori abbiano conseguito quanto loro promesso, deve ritenersi legittimo anche che i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività aziendale permangano nella disponibilità del debitore”. 
[52] 
Lo segnala anche I. Donati, op.cit., p. 188. Il criterio delle “alternative concretamente praticabili” torna invece all’art. 245, comma 5, CCII, relativamente all’omologazione del concordato nella liquidazione giudiziale, riproducendo la previsione dell’art. 129, comma 5, L. fall. previgente.

[53] 
La disciplina succitata nel testo è consegnata a una sezione come sopra intitolata alla generalità degli strumenti di regolazione, ma collocata con numerazione VI bis all’interno del Capo III (del Titolo IV del Codice) rivolto al solo concordato preventivo: suscitando dubbi sulla sua applicabilità anche ad altri strumenti, che qui non mette conto di esaminare. Cfr. almeno A.Nigro, La nuova disciplina degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società, in Ristrutt.aziend., 11 ottobre 2022, p. 3, per il quale alla luce del rinvio al nuovo art. 120 bis, contenuto nell’art. 40, comma 1, CCII (relativamente all’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza), “è da ritenere che gli art. 120-bis ss. siano destinati a trovare applicazione solo agli strumenti specificamente contemplati appunto nell’art. 40, vale a dire il concordato preventivo, gli accordi di ristrutturazione e il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione”. 
[54] 
Sul silenzio della disciplina previgente relativamente al possibile trattamento dei soci nelle ristrutturazioni, cfr. D. Vattermoli, La posizione dei soci nelle ristrutturazioni. Dal principio di neutralità organizzativa alla residual owner doctrine?, cit., p. 860 ss. 
[55] 
Cfr. L. Stanghellini, Verso uno statuto dei diritti dei soci di società in crisi, cit., p. 295, nel senso “che, anche sulla scorta della Direttiva 1023/2019, si è passati, per i soci di società in crisi, da un diritto astratto al plusvalore latente (e spesso inesistente) a una pretesa su un ben più concreto surplus da ristrutturazione”. 
[56] 
Di “attribuzioni ai soci” cui parla la rubrica del predetto articolo 120-quater CCII. 
[57] 
Per usare l’espressione adottata dalla Direttiva: cfr. di nuovo il cons. n. 56. 
[58] 
Sulla necessità di escludere dal tema in esame le pretese di cui i soci possano essere titolari in quanto “creditori in senso stretto della società” cfr. M. Spadaro, Il concordato delle società, in Dirittodellacrisi.it, 13 ottobre 2022, p. 19.
[59] 
Cfr. L. Stanghellini, Verso uno statuto dei diritti dei soci di società in crisi, cit., p. 304; G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, cit., p. 170. 
[60] 
Ne dà atto anche la Rel. ill. al d.lgs. n. 83/2022, cit., chiarendo – a commento dell’art. 120-quater – che “il valore di liquidazione del patrimonio è distribuito tra i creditori secondo la regola di priorità assoluta e il plusvalore da continuità è assegnato, ai creditori ed eventualmente ai soci, in una misura tale che il trattamento riservato a ciascuna delle classi dissenzienti sia almeno pari a quello delle classi di pari rango e più favorevole di quello riservato alle classi inferiori”. Nello stesso senso, espressamente, A. Nigro, op.cit., p. 10; G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, 2a ed., Torino, Giappichelli, 2022, p. 169. 
[61] 
Usa a questo riguardo l’immagine efficace di una ipotetica “risalita del valore” A. Rossi, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, in Società, 2022, p. 950. 
[62] 
Cfr. G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, cit., p. 105. 
[63] 
Lo rileva anche G.P. Macagno, op.cit., p. 7 e 17; e già D. Vattermoli, La posizione dei soci nelle ristrutturazioni. Dal principio di neutralità organizzativa alla residual owner doctrine?, cit., p. 883. 
[64] 
Cfr. A. Rossi, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, cit., p. 951. 
[65] 
Sui precedenti nel diritto tedesco, in ordine all’inclusione dei soci in apposita classe, ai sensi del § 222 InsO, come novellato dall’ESUG (Gesetz zur weiteren Erleichterung der Sanierung von Unternehmen), entrato in vigore il 1° marzo 2012, cfr. L. Benedetti, La posizione dei soci nel risanamento della società in crisi: dal potere di veto al dovere di sacrificarsi (o di sopportare) (Aufopferungs–o Duldungspflicht)?, in RDS, 2017, p. 731 ss. 
[66] 
Nel senso che il dissenso eventuale della classe dei soci, integrando il presupposto ivi previsto “se una o più classi sono dissenzienti” – l’art. 112, comma 2, CCII, al suo incipit parla infatti genericamente di “classi” e non di “classi di creditori”, in coerenza del resto con l’art. 109, comma 5, secondo cui “Il concordato in continuità aziendale è approvato se tutte le classi votano a favore”, di nuovo senza riferirsi alle sole classi di creditori, e allora in ambedue i luoghi così includendo, sembra, anche le classi di soci (mentre l’art. 109, comma 1, richiede come decisiva l’approvazione dei “creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto”, maggioranza da raggiungersi, ove siano previste diverse classi di creditori, nel maggior numero di classi, sempre dunque di creditori) – comporterebbe, onde conseguire l’omologazione del concordato in continuità aziendale, la necessaria quanto delicata verifica giudiziale della ricorrenza congiunta delle condizioni di cui alle lettere a-d dello stesso art. 112, comma 2, CCII.
Al riguardo, serve peraltro precisare che il voto dei soci:
- non concorre a formare le maggioranze necessarie per l’approvazione del concordato liquidatorio, atteso che, come poc’anzi rilevato, l’art. 109, comma 1, CCII dà rilievo a tal fine alla approvazione da parte dei soli creditori (in questo senso “La classe (o le classi) dei soci non concorrono a formare le maggioranze per l’approvazione del concordato”: cfr. M. Fabiani, Un affresco sulle nuove 'milestones' del concordato preventivo, in Dirittodellacrisi.it, 6 ottobre 2022, p. 33);
- nel concordato in continuità aziendale, benché possa concorrere al raggiungimento del requisito di approvazione secondo cui “tutte le classi votano a favore”, per quanto prima si osservava stante il mancato riferimento ivi alle sole classi di creditori, non può mai essere decisivo tuttavia ai fini del cram down giudiziale, che scatta qualora “una o più classi sono dissenzienti” (compreso dunque il dissenso dell’eventuale classe dei soci); in tal caso infatti, come già ricordato, il disposto dell’art. 112, comma 2, lett. d), CCII, riserva comunque un ruolo chiave alle sole posizioni propriamente creditorie, richiedendo la verifica che la proposta sia approvata dalla maggioranza delle classi, e però a condizione che “almeno una sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione”, oppure che la proposta sia approvata “da almeno una classe di creditori” che applicando l’APR avrebbero titolo a soddisfarsi anche sul valore di liquidazione (sul punto, in conformità all’art. 11, par. 1, lett. b), ii), della Direttiva n. 1023/2019, che si riferisce ad “almeno una delle classi di voto di parti interessate o […] che subiscono un pregiudizio, diversa da una classe di detentori di strumenti di capitale”: e cfr. al riguardo le considerazioni di D. Vattermoli, La posizione dei soci nelle ristrutturazioni, cit. p. 887, nt. 95). 
[67] 
Nella stessa ottica, allo scopo di facilitare l’espressione del consenso della classe dei soci, l’art. 120 ter, comma 3, CCII prevede che “Il socio che non ha espresso il proprio dissenso entro il suddetto termine si ritiene consenziente”. 
[68] 
Lo nota anche A. Rossi, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, cit., p. 956. 

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